A volte ritornano.
E i “compagni di merende”, con tutti i personaggi che alle loro spalle si sono celati e si celano, protagonisti delle indagini sui più efferati delitti dell’ultimo mezzo secolo, sembrano tornare anche dall’oltretomba, pallidi fantasmi che per anni l’Italia ha cercato di dimenticare e che invece continuano con insistenza a manifestarsi, allungando la propria ombra sulla cronaca contemporanea, spaventando, forse uccidendo, chi all’epoca si trovò suo malgrado coinvolto nei fatti, forse per eliminare prove che a distanza di anni continuano a essere scomode.
17 Gennaio 1993. Dopo otto anni dall’ultimo delitto irrisolto (quello della coppia francese uccisa in una tenda da campeggio) le indagini, rimaste per anni infruttuose, ora guidate dal neo-capo della Squadra Mobile Michele Giuttari, subiscono una svolta improvvisa e si concentrano sui residenti della zona, conducendo gli inquirenti all’arresto di Pietro Pacciani, contadino residente a Mercatale in Val di Pesa, personaggio noto per i suoi violenti trascorsi, che gli erano già valsa una condanna a tredici anni per l’assassinio dell’amante della sua fidanzata dell’epoca (1951): è proprio l’analogia tra questo delitto, così come fu raccontato dal Pacciani, e quelli del “mostro”, a far scattare le manette, oltre a una serie di altri indizi – intercettazioni telefoniche, ritrovamento, nell’orto di casa Pacciani, di un bossolo di pistola compatibile con quelli usati per gli omicidi e di svariati oggetti che si ritenevano appartenenti alle vittime – che sembrano convergere nella stessa direzione, suggerendo il pieno coinvolgimento di Pacciani. L’inizio del processo contro il presunto “mostro” porterà alla luce le atrocità commesse nell’intimità delle mura domestiche e mai denunciate, gli abusi nei confronti della moglie, picchiata e violentata, e le sevizie, sessuali e psicologiche, perpetrate a danno delle due figlie. La pista seguita dagli inquirenti conduce in seguito anche ai famosi “compagni di merende” – espressione coniata da Mario Vanni per definire, durante un interrogatorio, i suoi rapporti con la famiglia Pacciani e sarcasticamente ripresa dai media – il “Torsolo” (Mario Vanni) e il “Katanga” (Giancarlo Lotti), che sarà l’unico dei tre “compagni” indagati a rendere una confessione, autoaccusandosi dell’omicidio dei due ragazzi tedeschi (1983) – per cui sarà condannato a trent’anni di carcere – e testimoniando contro Vanni e Pacciani, riferendo alcuni dettagli degli omicidi, che in seguito si dissero controversi e non attendibili. Alla fine del processo, grazie anche alle testimonianze (dubbie?) rese dal Lotti, Pacciani, il “mostro” per eccellenza, l’uomo dal passato già scabroso su cui si era incentrata l’attenzione mediatica, verrà condannato all’ergastolo, con l’accusa di aver commesso quattordici dei sedici omicidi per cui era stato inizialmente imputato. Ma, anche dalla galera, Pietro Pacciani (come d’altronde lo stesso Vanni, pure condannato all’ergastolo) continuerà a dichiararsi innocente, fino all’assoluzione da parte della Cassazione (1996) che si rivelerà viziata da un errore tecnico, e alla disposizione di un nuovo processo; fino alla sua stessa morte (1998), che ne impedirà la celebrazione.
Pietro Pacciani, più degli altri due “compagni”, è senza dubbio, agli occhi degli inquirenti e dell’opinione pubblica, sconvolta dalla maniacale, efferata ritualità dei crimini di Firenze, il “Mostro” per eccellenza: violento con le donne, ossessionato da tematiche sessuali a sfondo sadico, già colpevole di un delitto. L’uomo capace di uccidere, a sangue freddo e senza motivo apparente: Pacciani rispecchia a pieno il profilo del “lust murderer”, l’omicida che agisce per lussuria, che colpisce le sue vittime, tutte coppiette appartatesi in cerca di intimità, proprio mentre danno sfogo alla libidine, che punisce le donne mutilandole e asportandone il pube e, negli ultimi due casi, il seno sinistro. Pacciani è l’uomo perfetto, il serial killer perfetto, l’assassino che si nasconde all’ombra di una vita grama e dimessa per colpire indisturbato, talvolta aiutato dai suoi complici, nella campagna fiorentina che gli è così familiare, soddisfacendo un interiore bisogno di violenza. Eppure Pietro Pacciani non ha mai ammesso la sua colpevolezza: che fosse in qualche modo implicato negli omicidi è oggi quasi una unanime certezza, ma la risonanza che la sua personalità così tracciata ebbe sull’opinione pubblica e sugli inquirenti stessi ha probabilmente messo in ombra altre piste, che, se seguite, avrebbero potuto condurre a nuove, ancor più inquietanti rivelazioni. Piste che furono in parte seguite, ma mai portate fino in fondo per mancanza (o occultamento?) di prove decisive: la pista esoterica, ad esempio, che vedeva nella ripetitività ossessiva del modus operandi degli omicidi le tracce di un rituale occulto legato al satanismo, e che suggeriva l’esistenza di ignoti mandanti degli assassinii; ipotesi che sono ancora al vaglio delle Procure di Firenze e Perugia, e che presero corpo in seguito alle indagini sulla oscura morte di Francesco Narducci (1985), giovanissimo professore universitario e noto medico perugino, annegato, a soli trentasei anni, nel lago Trasimeno. Il collegamento tra la morte di Narducci e gli episodi di Firenze avvenne grazie a una serie di intercettazioni telefoniche in cui alcuni pregiudicati minacciavano una misteriosa “Dora” di “farle fare la fine del medico ucciso sul Trasimeno”, facendo riferimento anche “all’omicidio di Pacciani”, morto in effetti in circostanze misteriose. Gli inquirenti profilarono così l’ipotesi dell’esistenza di una loggia massonica (lo stesso padre di Francesco, Ugo Narducci, apparteneva dichiaratamente alla massoneria), ai cui vertici si sarebbero trovati i mandanti dei delitti attribuiti al Mostro – tra cui Francesco Narducci e il farmacista Calamandrei – che prima commissionò gli omicidi ai “compagni di merende”, poi provvide a fare piazza pulita, togliendo di mezzo sia gli esecutori materiali dei crimini (Pacciani in primis), primo e più infimo gradino di una piramide ben più alta e articolata, sia lo stesso Narducci, allo scopo di evitare lo scandalo che sarebbe seguito alla scoperta di un suo coinvolgimento nei crimini di Firenze. Gli inquirenti ipotizzarono addirittura che, per occultare l’omicidio di Narducci, i massoni organizzarono uno scambio di cadaveri: il corpo ritrovato nel Trasimeno, identificato grazie alla patente come quello di Francesco Narducci, e su cui fu accertata la morte per annegamento, in realtà sarebbe stato un ignoto cadavere, che i presenti sul luogo del ritrovamento riferirono avere delle “fattezze negroidi”. Un corpo in ogni caso molto diverso da quello che emerse dalla tomba del Narducci, quando (2002), la procura di Perugia ne ordinò la riesumazione e l’autopsia, che rivelò una probabile morte per omicidio. Uno scambio di cadavere doppio dunque, effettuato allo scopo di proteggere l’organizzazione satanica che si celava dietro gli omicidi del Mostro.
E arriviamo così alla cronaca odierna. Lo scorso 3 Marzo è stato rinvenuto, sempre nel lago Trasimeno, il cadavere di un pescatore. I rilievi hanno accertato trattarsi di Ugo Baiocco, 74 anni, pescatore esperto che sarebbe morto annegato cadendo nelle gelide acque del lago, lo stesso lago che dieci anni prima aveva restituito il corpo di Arnaldo Budelli, cognato del Baiocco, dopo che la sua barca si era rovesciata, probabilmente in seguito a una folata di forte vento. Ugo Baiocco e Arnaldo Budelli: erano stati loro a ritrovare il cadavere di Francesco Narducci. Troppe sono le coincidenze, troppe le morti occulte di persone informate sui fatti di sangue di Firenze: come l’uccisione, avvenuta nel 2003 in un conflitto a fuoco con le Nuove Brigate Rosse durante un semplice controllo di documenti su un treno che andava da Roma a Firenze, di Emanuele Petri, poliziotto che aveva partecipato alle indagini su Narducci e che, in seguito al ritrovamento del cadavere avrebbe confidato a Enzo Ticchioni, pescatore, che la polizia era da tempo sulle tracce del medico per il ritrovamento di resti umani femminili nel frigorifero di una delle sue abitazioni a Firenze. E non sospettare l’esistenza di un collegamento tra queste due morti, le morti per annegamento di due uomini, pescatori esperti, che sulle acque del Trasimeno hanno passato probabilmente la maggior parte della loro vita, e il caso Narducci, connesso a quello del Mostro di Firenze, diventa quasi impossibile. Chi potrebbe essere il prossimo a cui verrà per sempre tappata la bocca?
Giuliana Gugliotti
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