La lettura del Processo, libro saturo d’infelicità e di poesia, lascia mutati: più tristi e più consapevoli di prima. Dunque è così, è questo il destino umano; si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, per una colpa ignota a noi stessi e che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre. Ora, tradurre è più che leggere: da questa traduzione sono uscito come da una malattia”. Questo è l’incipit della nota del traduttore, scrittore e sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti Primo Levi. Tra Levi e Kafka c’è un filo rosso che li accomuna: la religione. Tutte e due erano Ebrei. Sappiamo che Kafka ha vissuto la propria fede religiosa in modo estraneo, si sentiva un corpo staccato dalla grande massa compatta di fedeli della comunità ebraica di cui ne faceva parte. La causa di questa estraneità, Kafka l’attribuiva al padre; che mai aveva preso sul serio la propria religione, poiché il suo vero scopo era solo quello di arricchirsi grazie alla sua professione di commerciante.
Altro filo rosso che unisce autore e traduttore è l’assurdità del potere. “si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota”. Il punto di domanda non è stato riportato ma è chiaro che entrambi vorrebbero delle risposte. Risposte che non arriveranno mai e che, come beffa, anche alla fine della propria vita ci si può provare vergogna per quello che non si è commesso “-Come un cane- disse, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere” Non siamo veramente sicuri cosa Kafka volesse raccontare ma di sicuro, molte sono le similitudini che studiosi, storici o semplici lettori, hanno potuto constatare tra l’autore e il protagonista del romanzo Josef K. L’autore reale, secondo W. Booth deposita dentro il testo narrativo una sorta di “immagine”, una sorta di “firma” di se stesso. Spostandoci nella dimensione della comunicazione Intratestuale l’immagine diventa l’autore implicito.
Ed ecco che le similitudini tra Kafka e Josef K. si diradano, ci appaiono più trasparenti: l’età il lavoro, la solitudine e quel masso che preme su entrambi: il processo. “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino”, così inizia il processo a Josef K., rimandandoci a quel “processo” che allestirono alcuni amici di Kafka e della sua futura sposa, Felice Bauer, la mattina del 12 Luglio 1914, dove suggerirono, alla coppia, di rompere il loro fidanzamento. Eccoci qui, di fronte ad un tribunale, lo stesso tribunale che l’autore rievocherà nel romanzo.
Un tribunale parallelo, non ufficiale. Un tribunale dove nulla è chiaro; la luce trapela da piccole finestre facendosi spazio tra l’aria rarefatta e consumata di solai sporchi, sudici, sede di aule e cancellerie del tribunale. Tutti sanno tutto, tutti parlano del processo e tutti sanno dare consigli a K. Gli stessi consigli che, amici della coppia, diedero quella mattina del 12 Luglio.
Ecco, forse è questa la “visione” dell’autore. L’assurdità di un potere che è capace di modificare pensieri e opinioni della gente. Questo “potere” che è invisibile, questo “potere” che diventa tanto devastante ogni volta che passa di bocca in bocca. Questa “visione” si spinge fino a chiedersi perché la giustizia è così inaccessibile. Perché, se non si fa nulla di male, si viene colpevolizzati? Forse la colpa è stata solo quella di aver conosciuto Felice Bauer? Con la lettura del libro possiamo fare solo similitudini e paragoni. Cosa veramente pensasse Kafka durante la creazione della sua opera, non ci è dato da sapere. Analizzando il testo narrativo si capisce, già dalle prime battute, che la voce narrante è una voce extra/eterodiegetica. Con una più attenta messa a fuoco del romanzo, possiamo scorgere però che nel capitolo sesto (Lo zio. Leni) la voce narrante diventa intra/eterodiegetica.
Si tratta della lettere della cugina di K. che lo zio gli legge in sua presenza. Altro punto dove la voce narrante salta dalla dimensione extradiegetica alla dimensione intradiegetica è nel capitolo nono (Nel duomo), quando un fantomatico cappellano delle carceri racconta a K. la parabola della legge.
Citando il critico letterario Roland Barthes, nel racconto possiamo intravvedere la formula post hoc ergo propter hoc. Ogni avvenimento successivo è causa dell’avvenimento che lo precede.
Come sarebbe cambiato il destino di K. se lui stesso non avesse tolto dall’incarico l’avvocato presentato dal ricco zio? Questo non è dato saperlo; ma al lettore rimane in bocca un’amara conseguenza per quel folle gesto. Il trascorrere del tempo, è lineare, anche se il lettore viene investito da anacronie di tipo analettico omodiegetico. Un esempio lo possiamo trovare nel capitolo secondo (primo interrogatorio) dove K. racconta la visita nel suo appartamento dei due funzionari del tribunale, avvenuta giorni prima. Questo tipo di analessi sono analessi ripetitive.
Il narratore ricorre a questo “stratagemma” per far percepire al lettore una sorta di “interrogatorio” (forse lo stesso interrogatori tanto atteso da K.) tanto da farlo tornare indietro di qualche pagina per cogliere cosa si era lasciato sfuggire. Durante la lettura del racconto non mi è parso di incontrare nessuna anacronia di tipo prolettico. Analizzando il romanzo, sotto il rapporto tra storia e racconto, ci addentriamo nella categoria “MODO”. Il modo indica i punti di vista che il racconto assume nel riferire la storia e i diversi gradi di informazione narrativa connessi a quei punti di vista.
La focalizzazione, che è una sottocategoria del modo, appare interna (N=P) infatti il narratore dispone di un punto di vista, di un sapere che coincide con la coscienza del personaggio. Leggendo il libro si desidererebbe poter entrare nella storia per cercare di scuotere il pensiero e il comportamento lascivo di K. Solo alla fine del romanzo, poco prima che “sulla gola di K. si posarono le mani di uno dei due” possiamo identificarci con l’uomo che vede tutto da “quella” finestra.
Potrebbe essere un conoscente, un amico? Solo a lui, a noi lettori, è affidato il compito di fare giustizia su questo strano quando inusuale “processo”.
PATRIZIA DIOMAIUTO
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