Il mondo è pieno di storie sconosciute che vale la pena di raccontare. Perché restino sconosciute tanto a lungo non si sa, forse per dimenticanza, per disattenzione o per ignavia. Poi, un bel giorno, una di queste vicende salta fuori, sepolta sotto le polveri decennali della storia impietosa, che tira dritto e sbiadisce i ricordi, perché la memoria spesso è traditrice, non sempre trattiene le tracce del passato, più spesso le cancella come orme sulla sabbia dopo una mareggiata. Resta solo una vaga impressione, ricostruire la forma originaria è faticoso, si procede per tentativi, ma quando ci si riesce è come una rivelazione potente e inaspettata, un’esplosione di fuochi d’artificio nella notte che illumina il cielo nero di bagliori dorati. È la fiamma della memoria che arde e vivifica e sottrae un pezzo di vita vissuta ai bui anfratti dell’oblio.
Così, succede che alcune studentesse del Kansas impegnate in una ricerca scolastica riportino alla luce una storia dimenticata. È il 1999, cinquant’anni sono passati da quando questa storia è accaduta, e nessuno prima d’allora ne aveva mai parlato. Irena Sendler era un’assistente sociale e un’infermiera polacca che durante l’occupazione nazista della Polonia salvò la vita a 2.500 bambini ebrei. L’angelo del ghetto, la chiamavano i suoi piccoli debitori e le famiglie che le affidavano i loro figli nella speranza di sottrarre almeno loro alla certezza dei lager e della morte. E davvero sembrava un angelo, Irena, nelle fotografie in bianco e nero dell’epoca, la curva volitiva delle labbra addolcita dallo sguardo mite e pieno di compassione. Lo stesso sguardo che aveva ancora a 95 anni, poco prima della sua morte avvenuta il 12 Maggio 2008.
È difficile pensare che una donna sola, seppure alla guida di un’organizzazione che contava oltre 25 collaboratori, tutti militanti nella Resistenza Polacca, sia riuscita a salvare tante vite innocenti. Con il pretesto di curare i malati di tifo e portarli negli ospedali di Varsavia, Irena prelevava i bambini del ghetto e sotto falsa identità li affidava alle cure di orfanatrofi, istituti religiosi e famiglie cattoliche disposte ad accoglierli. Per offrire loro un futuro, una possibilità di salvezza. Li nascondeva nelle cassette degli attrezzi, in sacchi di juta e nelle buste della spazzatura. Il suo cane abbaiando copriva i loro pianti e i tedeschi non si avvicinavano mai troppo per paura del contagio. Poi, Irena annotava i loro nomi su fogli di carta, quelli veri accanto a quelli falsi, nella speranza di poterli un giorno ricongiungere ai genitori. La sua lista, due volte più lunga di quella di Oskar Schindler, è rimasta nascosta per anni dentro barattoli vuoti di marmellata seppelliti nel giardino di un suo vicino di casa, di fronte a una caserma tedesca. Irena non ne rivelò il contenuto nemmeno quando i nazisti, informati della sua attività clandestina, la arrestarono e la torturarono spezzandole le gambe e rendendola invalida a vita. I compagni della Resistenza riuscirono a salvarla dalla condanna a morte corrompendo un ufficiale, e Irena visse in clandestinità gli anni successivi, assistendo alla messa in scena della propria morte. Quando, a guerra finita, recuperò i suoi vasetti coi nomi dei bambini e dei loro genitori, pochi di loro erano scampati alle camere a gas di Treblinka.
Irena trascorse il resto della sua vita a Varsavia, nella sua città natale, allontanandosene solo nel 1965, quando si recò in Israele per ricevere il riconoscimento di “Giusto fra le Nazioni”. Proposta nel 2007 dal governo polacco per il Premio Nobel, non fu mai nominata. Ma a lei non importava.
Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”
scrisse in una lettera al Parlamento polacco.
Perché il valore di una vita è superiore a quello di qualunque riconoscimento. L’idea di queste vite sepolte sottovetro ha colpito l’immaginazione delle tre studentesse che per prime hanno riportato alla luce la storia di Irena, tanto da spingerle a organizzare uno spettacolo teatrale, che hanno intitolato appunto “Life in a jar”, la vita in un barattolo. Oggi quei barattoli, dissotterati, girano il mondo e si riempiono di fondi a sostegno del progetto Irena Sendler rivolto a tutti i reduci della Resistenza Polacca. Ma soprattutto con l’obiettivo di non dimenticare, tenere accesa la fiamma della Memoria sulla Shoah, instillare i valori e tramandare il coraggio che animò la vita di Irena Sendler e di chi collaborò con lei per salvare una piccola fetta di umanità. Perché chi salva una vita, salva l’umanità intera. E questo è un messaggio universalmente valido, oggi come allora, che nemmeno millenni di storia e quintali di cenere riusciranno a seppellire.
Giuliana Gugliotti
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