Dopo la vittoria ai recenti Golden Globe, “La Grande Bellezza” di Sorrentino punta in alto, alle nomination agli Oscar 2014 e perché no anche al premio più ambito, la vittoria come miglior film straniero. Domani alle 14.30 (ora italiana) sapremo finalmente se l’opulento e contorto film di Sorrentino ha superato lo step finale, quello che di diritto lo porterebbe a competere per l’Oscar; statuetta che l’Italia non si aggiudica dal 1999, quando un emozionatissimo e incredulo Roberto Benigni vinse con “La vita è bella”.
Ai Golden Globe un orgoglioso Paolo Sorrentino ha ritirato il premio, ringraziando l’Italia, paese strano e meraviglioso, come l’ha definito lo stesso regista napoletano. La pellicola, che in Italia è stata accolta molto tiepidamente non solo dalla critica giornalistica ma anche dal pubblico, scatenando e dividendo l’opinione pubblica, ha invece ottenuto plausi all’estero, tanto che lo stesso Martin Scorsese non ha lesinato a pronunciarsi favorevolmente nei confronti de “La Grande Bellezza” e di Sorrentino. Vincere contro Farhadi, Miyazaki e Kechiche ha un valore non da poco; poiché sebbene i premi siano stati assegnati dalla Hollywood Foreign Press Association (la stampa straniera di Hollywood), la vittoria potrebbe sicuramente invogliare i membri dell’Academy Awards a guardare il film con maggiore interesse.
Già dalla vittoria agli European Film Awards tutti hanno notato quanto la stampa internazionale sia stata molto più generosa di quella italiana nei confronti di Sorrentino. Così, mentre i media italiani si divertivano a trovarvi mille difetti, spesso più per una sorta di spocchia fastidiosa che per concreti giudizi tecnici, all’estero spopolava, tanto da far fuori dalla corsa verso l’Oscar pellicole molto quotate, come “La vita di Adele” e “Il passato”.
Nel panorama italiano particolarmente desolante dal punto di vista cinematografico e che da anni non riesce più ad imporsi nel mondo, un regista come Paolo Sorrentino può aiutarci ad uscire dal oblio nel quale siamo caduti da quando sono morti i grandi padri del Neorealismo italiano. Il regista napoletano, piaccia o non piaccia il suo film, sta dimostrando, anche ai maggiori pessimisti e detrattori, che l’Italia e gli italiani hanno ancora storie interessanti da raccontare. Ma a leggere le critiche di giornalisti esperti del settore c’è da chiedersi se non siamo proprio noi gli artefici del nostro amaro destino. Perché cercare forsennatamente nella pellicola di Sorrentino la Roma “reale”, quello che esiste o non esiste, o continuare a paragonarla alle opere di Fellini, come “La dolce vita”, può risultare controproducente. Fellini è Fellini e il paragone non regge. Il solo pensiero che Sorrentino abbia voluto proporci il mai dimenticato e incommensurabile Fellini in chiave contemporanea e quasi scimmiottandolo fa acqua da tutte le parti.
La Roma raccontata da Sorrentino, bellissima in tutta la sua grandezza ma anche disfacimento (con le rovine, le chiese, i monumenti e il Colosseo in bella mostra) è solo un pretesto utilizzato dall’autore per sottendere il messaggio di fondo dell’intera pellicola, ovvero la bellezza che ne è protagonista, che salva gli uomini dalle meschinità che li circondano. Una bellezza devastante e che lascia attoniti. Meraviglia che nella sequenza iniziale arriva al cuore del turista giapponese che la sta fotografando e che per la troppa bellezza ne muore.
La carrellata di personaggi gretti, meschini, ignoranti, corrotti, finti radical chic che passano le giornate annoiandosi tra una festa e un’altra, il prete dedito più ai piaceri del cibo che alla cura e alla salvezza delle anime – e si potrebbe ancora continuare – sono l’immagine di un mondo corrotto e meschino che ha risucchiato tutto quello che di bello può essere la natura umana. I personaggi raccontati da Sorrentino non sono i personaggi di Fellini, perché mentre Fellini amava i suoi mostri e se ne compiaceva, Sorrentino li ripudia; quasi ne ha paura. Non a caso i personaggi de “La Grande Bellezza” talmente che sono poveri e gretti non meritano nemmeno un approfondimento maggiore da parte del regista, e passano, come passano le maschere di un Carnevale che si guardano perché fanno scena, ma che non lasciano nulla allo spettatore, se non la tristezza di un’umanità che si è lasciata corrompere dal cattivo gusto. Maschere vuote e prive di qualsiasi bellezza interiore. Ma la bellezza esiste. Esiste nei ricordi di Jep Gambardella (Toni Servillo). Nei ricordi di un amore giovanile mai dimenticato e che darà al protagonista la possibilità di rimettersi in gioco e di riprendere a scrivere. Dopotutto anche in un mondo dominato dalla bruttezza più becera è possibile trovare quel piccolo spicchio di paradiso personale, senza lasciarsi trascinare dal niente che è intorno.
Dalla grottesca rappresentazione del disfacimento esistenziale e del fallimento di ogni essere umano è il personaggio di Jep Gambardella a venirne fuori. Difatti Jep è assolutamente consapevole della meschinità che lo circonda, ci vive dentro senza mai lasciarsi coinvolgere del tutto; anzi ne è disgustato. E’ un puro perché, a differenza della maschera da cinico dietro la quale ama nascondersi, comprende, alla fine del suo viaggio e dopo uno strenuo cercare, che tutto quello che aveva sempre voluto era dentro di sé. Dentro quella sensibilità ovattata da strati e strati di lucido sì ma doloroso cinismo. Ed è l’unico personaggio ancora in grado di giudicare e giudicarsi. Insomma, forse per poter cogliere la bellezza che ci circonda ed anche quella del film dobbiamo imparare ad accettare le ombre che popolano il mondo, senza le quali non esisterebbe la luce e nemmeno la vita. Meravigliosa e misteriosa vita, che va vissuta interamente, sia nei momenti di sconfinata bellezza che in quelli di disperata bruttezza.
Maria Scotto di Ciccariello
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