La storia dei governi dell’Italia repubblicana non è indubbiamente all’insegna dell’attivismo riformatore: qui s’intende parlare di riforme strutturali (ossia atte ad intaccare l’architettura dello stato) e non provvedimenti di medio-bassa importanza o addirittura mediocri leggi da normale amministrazione.
Le indubbie colpe vanno date alla fragilità della maggioranza, alla scarsa omogeneità delle coalizioni o dei partiti e ad un sistema esecutivo farraginoso: la teoria non vale, quando ci si riferisce ad alcuni lunghi governi, la cui totale inoperosità è voluta e “giustificata”
La prima e gran delusione (durante il breve limbo post fascista ma pre repubblicano) fu il breve governo di Ferruccio Parri.
Parri era un leader della resistenza settentrionale, capace di incarnare la concretezza e l’azione riformatrice dei partigiani: purtroppo le buone intenzioni si scontrarono con l’eccessiva “larghezza” della maggioranza, tra una sinistra riformista ed un’asse “Dc-Pli” moderata.
La prima gran riforma, indubbiamente la più importante, fu la stesura della costituzione nel 1948, creata dall’azione propulsiva dell’idea partigiana: l’unica che vide la collaborazione di tutti i partiti del parlamento.
Di seguito vi furono otto governi consecutivi d’Alcide De Gasperi (sette anni in tutto) che partorirono appena due riforme, seppur di grande importanza: la cassa per il mezzogiorno (destinata in teoria a finanziare opere pubbliche nel meridione) e la gran riforma agraria che diede la terra ai contadini.
Perché si crearono questi stalli?
Innanzi tutto vi furono grossi freni all’interno della maggioranza (sempre dettata dai liberali, che preferivano scegliere spese minori, puntando a scongiurare l’inflazione) e contemporaneamente ostilità interne alla Democrazia Cristiana, la cui destra moderata rappresentava i “poteri forti”.
Le riforme furono richieste dai partiti di sinistra (finchè fecero parte del governo) e da Giuseppe Dossetti: leader della “sinistra” democristiana, che infine deluso si ritirò in convento.
In questo periodo s’idearono le prime riforme “mancate”, vale a dire destinate a non realizzarsi mai( oppure molto tempo dopo), una costante nella storia politica italiana: ad esempio una tassa sui redditi finanziari ed il cambio di moneta.
Terminata l’epoca dei governi De Gasperi, per lunghi anni vi fu, eccettuando un breve periodo, una mancanza di riforme strutturali: dal 1954 al 1962 si susseguirono nove governi o scarsamente operativi, il più delle volte causa la scarsa durata.
L’unica eccezione fu il primo governo d’Antonio Segni che rinnovò i patti agrari, creò la corte costituzionale (prevista dalla costituzione ma spesso disattesa) ed infine partecipò alla fondazione dell’Unione Europea.
Un rinnovato stimolo riformista avvenne nel 1962, quando si creò il primo governo di centro sinistra ed o socialisti spinsero per realizzare innovazioni.
Il progetto socialista era ampio: riforma scolastica, nazionalizzazione dell’energia elettrica (e di conseguenza diminuzione del potere monopolista), piano economico quinquennale, espropriazione delle terre ai privati per passarle allo stato (che a sua volta li sfruttava per la popolazione non abbiente, evitando la speculazione edilizia) e riforma sanitaria.
Ancora una volta le speranze furono deluse ed il solo governo d’Amintore Fanfani (per altro rapidamente, in un solo anno) attuò la riforma scolastica (unificazione della scuola media) e la nazionalizzazione dell’energia elettrica (la nascita dell’Enel).
L’ottimismo nasceva dal fatto che il prossimo governo (costituito da Aldo Moro e caratterizzato dalla presenza del Psi nei ministeri) potesse attuare tutte le altre riforme auspicate, ma fin dall’inizio furono posti degli ostacoli che impedirono ogni desiderio.
In ordine cronologico tre avvenimenti rallentarono il processo riformatore: il leggero “crollo” della Dc alle elezioni politiche, il fallito tentativo di creare un governo di centro-sinistra post elettorale (Riccardo Lombardi giudicò il programma troppo annacquato e si ricorse ad un monocolore “balneare” di Giovanni Leone) ed infine la lettera d’Emilio Colombo (ministro delle finanze) al presidente della “Banca d’Italia”, che auspicava riforme meno costose.
Il risultato fu un totale immobilismo per ben sei anni (dal 1963 al 1969): in realtà l’auspicato programma venne in qualche modo approvato (piano economico ed espropriazione dei terreni) ma fu talmente rimandato e moderato, che non ebbe alcuna consistenza.
Le motivazioni sono due: la crisi economica che richiedeva leggi dai costi non eccessivi (ma la congiuntura, un certo punto migliorò) e la filosofia politica d’Aldo Moro (che fu premier per cinque anni) che preferiva badare alla stabilità della maggioranza, a scapito del programma.
Nonostante la mancanza di risultati, la Dc preferì isolare lo scomodo Moro (il partito considerava già pericoloso il suo semplice “enunciare le riforme”) e rimpiazzarlo con l’incolore Mariano Rumor.
Paradossalmente fu proprio il primo governo di Rumor che varò un nuovo periodo riformatore: un semplice calcolo politico, dato dal movimento del ’68 che avanzava e da una classe politica che doveva realizzare qualcosa per la propria sopravvivenza.
Furono attuate le regioni (già teoricamente scritte nella costituzione del 1948 !), fu promulgata la legge sul divorzio (poi confermata clamorosamente nel 1974) e fu promosso lo statuto dei lavoratori.
Quasi come se lo sforzo fosse stato eccessivo, dopo il 1970 passarono altri otto anni prima che fossero promulgate altre riforme: la bellezza di dieci governi “silenti”.
La rinnovata azione avvenne (come l’esempio del 1962) come reazione al primo governo col Partito Comunista in maggioranza e probabilmente dato lo shock dell’assassinio di Moro; toccò quindi al premier Giulio Andreotti compiere una gran riforma social-sanitaria, attesa fin dai primi anni ’60: furono aboliti i manicomi e create le Usl, vale a dire la sanità gratuita pubblica.
Il breve periodo riformatore fu di nuovo bloccato per sette anni: sette governi nulla facenti, impegnati tra scandali e faide interne.
Il pomposo governo di Bettino Craxi in realtà non promosse vere e proprie riforme strutturali (anche se fu importante l’abolizione della scala mobile e l’episodio di Sigonella) ma l’unica davvero “storica” fu il rinnovo del concordato tra lo stato e la chiesa, il cui ultimo documento risaliva al 1929.Inoltre fu sotto il governo di Craxi che si cominciò ad immaginare una gran riforma istituzionale, di cui si parlò per molti anni futuri, ma non si riuscì ad attuare, fino ad ora, mai.
Dopo un breve periodo di tregua (“appena” tre anni), per attendere nuove riforme strutturali si dovette aspettare il penultimo governo di Giulio Andreotti: il crollo del muro di Berlino tolse ogni “alibi” elettorale alla Democrazia Cristiana ed il furbo politico romano dovette attuare un vasto piano riformatore per darsi credito verso gli italiani.
Furono varate: una radicale riforma del codice penale, quella televisiva (che “legalizzò” l’impero mediatico di Berlusconi) ed una necessaria sull’immigrazione.
Lo scandalo di tangentopoli fece dimenticare ogni prospettiva riformista: alcune idee importanti furono promesse dal primo governo Berlusconi ma la sua breve durata (e le lotte nella maggioranza) non le rese attuabili; alla fine degli anni ’90 parve concretizzarsi l’idea di un’assemblea bicamerale per le riforme istituzionali: ma le consuete faide politiche, impedirono ogni azione.
Passarono almeno dieci anni, prima che qualche governo imbastisse seriamente riforme strutturali (probabilmente a causa degli scandali e della situazione economica precaria, ma anche per il congenito immobilismo italiano).
Indubbiamente fu Silvio Berlusconi, durante il suo secondo governo (che durò quattro anni, un vero record !) ad imbastire una radicale riforma scolastica (cambiando l’organizzazione degli orientamenti superiori), a promuovere una storica ma contestata riforma del lavoro (che impose la flessibilità, purtroppo senza alcuna forma d’ammortamento sociale) e tentò di promuovere una grandiosa riforma istituzionale (bocciata al referendum successivo).
Conseguente a Silvio Berlusconi (che non riuscì a ripetersi nei successivi governi a causa di scandali e lotte interne alla coalizione) vi fu un ormai “tipico” silenzio riformatore di ben tredici anni, passando ben cinque governi.
I motivi vanno individuati nella fragilità delle coalizioni, ma soprattutto nel grave periodo di crisi economica, che ha comportato la creazione di governi “tecnici” o di “coalizione”.
Matteo Renzi sembra voler cambiare l’andazzo riformatore del paese, attuando tante riforme strutturali: la speranza è che riesca nel suo intento, per il bene del paese ma anche per migliorare il senso democratico, creando uno stimolo verso la parte avversa.
Rey Brembilla
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