La serata sanremese di venerdì è stata dedicata al cantautorato italiano: gli artisti in gara ne hanno interpretato alcuni brani.
Quando si parla di storici cantautori italiani non ci si riferisce agli attuali, che sono numerosissimi, ma a coloro che negli anni ‘60/’70 ebbero il coraggio di scrivere e cantare le proprie canzoni: difatti la musica leggera italiana nasceva nella distinzione tra cantanti e parolieri, Domenico Modugno fu il primo a cantare i brani da lui composti.
Modugno destò scandalo per la vitalità nel cantare ma anche per l’anti-conformismo dei suoi testi (“vecchio frac” parlava di un suicida in piena epoca clericale italiana e “nel blù dipinto di blù” aveva un testo sicuramente surreale per quei tempi) ma fu la “new wave” dei nuovi cantautori che creò scompiglio tra la gente “per bene”.
Gli stessi giornali più progressisti dei primi anni ’60, osservavano, con un misto di curiosità e disprezzo, le giovani leve musicali: i cantautori difatti non si distinguevano solo per la musica ma anche per lo stile di vita.
La classica liturgia del Festival di Sanremo si tenne lontana da queste novità (eccetto il caso clamoroso di Domenico Modugno) ma dovette piegarsi durante l’edizione del 1961.
Accanto a classici o antiquati nomi degli anni ’50, approdarono in Liguria questi “curiosi individui”, abbinati a canzoni alquanto particolari: Giorgio Gaber (che cantava “benzina e cerini”, un titolo inquietante), Pino Donaggio, Umberto Bindi, Gianni Meccia (che “osava” paragonare una ragazza ad una patatina, il giovane artista era celebre per testi surreali) e Gino Paoli.
Colpisce la figura d’Umberto Bindi, che si esibì sul palco con un appariscente anello di brillanti al dito: Bindi fu immediatamente tacciato d’omosessualità (era realmente omosessuale, ma lo ammise molti anni dopo tra le lacrime) ed escluso, da quel momento, dalla Rai (tornò al Festival sono nel 1996, classificandosi per altro ultimo).
Gino Paoli aveva una nomea particolare(viveva in un attico di Genova con tanti gatti) e non lo agevolavano gli onnipresenti occhiali scuri (anche sul palco del casinò) ed un’aria truce: la canzone poi, “un uomo vivo”, fu oggetto di pesanti ironie a causa di un testo che ricordava vagamente la fiaba di “Cappuccetto Rosso” (i miei occhi mi servono per vedere te, le mie labbra mi servono per parlare a te, le orecchie mi servono per sentire la tua voce, le mie mani mi servono per stringere te).
Inutile affermare che degli autori citati solo Donaggio superò il sesto posto (Paoli e Bindi passarono in finale, ma furono relegati tra gli ultimi, mentre Meccia e Gaber furono eliminati).
Quell’anno vinse una “classicissima” “Al di là”, solo vagamente resa moderna dalla squillante voce di Betty Curtis.
Gli artisti citati furono talmente scottati che ebbero sempre brutti rapporti con la manifestazione canora: Gaber e Donaggio parteciparono ancora ma perennemente snobbati (nonostante brani originali e di gran valore), Meccia non partecipò più, Paoli tentò ancora una volta ma senza successo (1966 con “la carta vincente”, un brano indubbiamente non all’altezza) e Bindi fu forzatamente escluso.
Altra forma di “miopia” il Festival l’ebbe nell’edizione del 1965, quando si presentò un giovanissimo Bruno Lauzi con la stupenda “il tuo amore”, ovviamente esclusa dalla finale e passata nel dimenticatoio.
Un autore come Fabrizio De Andrè non criticò mai le numerose presenze della moglie e del figlio, ma neppure partecipò: ammettendo la paura di affrontare la gara.
Alla fine degli anni ’60 transitarono al Festival tre giovani destinati al successo: Lucio Battisti (nel 1969 con “ un’avventura”), Luigi Tenco e Lucio Dalla.
Lucio Dalla tentò l’avventura nel 1966 con un pezzo coraggioso e surreale (“Paff bum”) ma in quanto tale sonoramente eliminato, tornò con maggior successo l’anno dopo: lo scomparso cantante bolognese non fu aiutato da uno stile vocale coraggioso (ricco d’urla e schiamazzi durante l’esibizione) ma diverso dal Dalla maturo.
Luigi Tenco concorse a Sanremo di malavoglia, con un brano non eccelso e un’esibizione scarsamente impeccabile: il clamoroso suicidio in camera d’albergo è il simbolo del “cantautore impegnato” rifiutato dalla kermesse canora.
Lucio Battisti fu l’unico ad approdare in finale, seppur ottenendo posizioni in classifica (nono posto) non conformi ad un artista che segnò la storia della musica in Italia.
Durante la metà degli anni ’70, il Festival di Sanremo entrò in crisi, a causa di una nuova ondata di cantautori protestatori che non accettavano di partecipare ad un concorso eccessivamente tradizionale.
In quegli anni vi furono sporadiche apparizioni di cantautori: Roberto Vecchioni nel 1973 (la sua presenza passò inosservata se non per il titolo chilometrico della canzone ma si rifarà con la vittoria di molti anni dopo), Ivano Fossati come flautista dei Delirium (nel 1972 “Jeshael” fu un gran successo) e Lucio Dalla, che in Liguria trovò i primi veri successi.
Colpisce, però l’edizione del 1973, in quell’anno parteciparono alle selezioni almeno tre cantanti di grido (Lucio Dalla, Ivano Fossati ed un giovanissimo Antonello Venditti) ma purtroppo il miope selezionatore Napoleone Cavaliere scartò i tre interpreti e promosse giovani sconosciuti, destinati a rimanere tali.
L’edizione del 1973 poteva entrare nella storia, ma purtroppo si ridusse al dimenticatoio.
Venerdì Sanremo ha reso omaggio ai cantautori: godendo di frutti che non è stato in grado di cogliere.
Rey Brembilla
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