Felicità raggiunta, si cammina | per te sul fil di lama. | Agli occhi sei barlume che vacilla, | al piede, teso ghiaccio che s’incrina; e dunque non ti tocchi chi più t’ama. Se giungi sulle anime invase | di tristezza e le schiarì, il tuo mattino | è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. Ma nulla paga il pianto del bambino a cui fugge il pallone tra le case. (Eugenio Montale).
Eugenio Montale e le sue parole, per introdurre un piccolo capolavoro d’animazione, che si intitola L’arte della felicità. Sì, avete capito bene, un cartone animato, non un film. Perché a volte accade che bisogna ritornare bambini per assaporare il gusto di questa realtà a tratti tragica, malandata, corrotta e fatta a pezzi. L’arte delle felicità è un film d’animazione per adulti con una storia semplice ma commovente. Non stupisce allora che dopo aver conquistato diversi premi alla Mostra del Cinema di Venezia, il film abbia conquistato anche il pubblico indiano del Festival di Goa.
E’ un film ideato, scritto e prodotto da un gruppo di giovani ragazzi napoletani. Alessandro Rak, fumettista napoletano e ai suoi esordi come regista, e poi Lucio Allocca, Leandro Amato, Silvia Baritzka, Francesca Romana Bergamo e Antonio Brachi. Un film prodotto con un budget esiguo perché Napoli non è solo immondizia, camorra e delinquenza. Ma è anche questa, ovvero la storia di un gruppo di ragazzi e il loro sogno. Un sogno che va a Londra e vince il Raindance Festival e che commuove un’ intera platea in India.
Una storia semplice, ma necessaria di questi tempi tristi e cupi. Una storia che ci ricorda che la felicità è qualcosa che tutti noi possiamo ottenere se facciamo buon uso del tempo che abbiamo a disposizione. Il segreto è tutto qui: nella semplicità delle cose che non vanno perdute, nei rapporti con le persone che vogliamo bene e che devono essere custoditi prima che sia troppo tardi.
Il cartone animato racconta la storia di Sergio, ex musicista ma che fa il taxista in una Napoli abbruttita e che trabocca di immondizia, pioggia e malinconia. Guida il suo taxi bianco il quarantenne Sergio e sembra non voler scendere, e immischiarsi con quello che sta accadendo fuori. Sergio porta con sé un grande dolore, la morte del fratello Alfredo, anch’egli musicista, e partito dieci anni prima per il Tibet senza fare più ritorno. La sua storia triste, dolorosa ma allo stesso poetica emerge a tratti come un flusso di coscienza o un viaggio lisergico verso una corsa senza fine, interrotta spesso dai numerosi flashback che fanno rivivere a Sergio il suo rapporto con il fratello. L’incontro con le persone che saliranno sul taxi porteranno Sergio a confrontarsi con il peso oscuro della morte di una persona cara; il fratello Alfredo, così tanto amato e ammirato. Come affrontare un dolore troppo grande da portarsi dentro? Sergio capirà che la musica, quella passione che da sempre l’aveva accomunato al fratello, è lo strumento più potente per sentire di nuovo accanto Alfredo.
L’arte delle felicità ci racconta anche questo, ovvero come reagire alla morte, come raccontare questo disagio interiore, intimo, profondo. E lo fa con delicatezza e poesia, non solo malinconia. Quasi a ricordarci che oltre il cielo plumbeo e una città sull’orlo dell’Apocalisse forse c’è ancora la possibilità di ritrovare una nuova strada, un nuovo cammino da intraprendere. E’ una storia piccola, ma grande. Ed è una storia che vale la pena andare a vedere come ci ricorda anche Concita De Gregorio nel suo articolo pubblicato su Repubblica:
“Provaci, chiama all’appello la tua anima. Ecco. Fate “mi piace” su questo, mettetevi il cappotto e uscite a cercarlo. Potrebbe cambiarvi forse non la vita, ma il punto di vista sulle cose. Per un po’, per qualche ora, e poi chissà. Coraggio, provate, dice Napoli.”
Maria Scotto di Ciccariello
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