A chiunque capita di avere un parente bizzarro in famiglia: la classica “pecora nera” che desta però benevola simpatia o affetto.
Nei primi anni ’70 (e a quanto pare tutt’oggi), il Pci e il suo entourage si relazionarono in modo “affettuoso”, non per forza ostico, con le Brigate Rosse: dopo il delitto Moro questa concezione parve scomparire, salvo attualmente riaffiorare inquietante in una frase di Rodotà; in contrasto con la Tav, il politico affermava che l’allineamento delle nuove Br a confronto dello sciopero è “deprecabile ma comprensibile”.
In seguito l’ex membro del Pci si è scusato, ma il lapsus freudiano è lampante.
Piero Fassino ha onestamente descritto il comportamento del Pci in quegli anni.
«a volte, le nostre intenzioni erano confuse. Mentre alcuni compagni pensavano a una congiura di forze reazionarie, in altri la condanna del terrorismo era, come dire?, soltanto tattica. Secondo questi ultimi compagni, il terrorista sbagliava unicamente perché la forma di lotta che aveva scelto era “controproducente” e faceva il gioco del padrone. Mancava in molti di noi un giudizio negativo della violenza, da rifiutare sempre, in sé e per sé. E c’erano anche, guai a non riconoscerlo!, gruppi sia pure isolati di nostri compagni che dicevano di certe vittime: “Gli sta bene!”. Accadde, ad esempio, per il sequestro Amerio. Quest’ultima posizione si espresse nella formula: “I terroristi sono compagni che sbagliano”. Lo slogan imperversò per un paio d’anni, fino al 1977, contrapponendosi alla tesi della congiura».
Allo stesso ragionamento è arrivato Giorgio Amendola nel 1979.
«L’errore iniziale compiuto dal sindacato è stato quello di non denunciare immediatamente il primo atto di violenza teppistica compiuto in fabbrica, come quello compiuto nelle scuole. L’errore dei comunisti è stato quello di non aver criticato apertamente, fin dal primo momento, questo comportamento, per un’accettazione supina dell’autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti».
La terminologia dei “compagni che sbagliano” era differente, ma simile a “sedicenti Brigate Rosse”: da una parte c’era che un rifiuto non totale della violenza(e considerava i primi atti terroristici come una banale provocazione), dall’altra si sosteneva che le Brigate Rosse fossero un’emanazione di servizi segreti deviati(lo scopo era screditare il Pci nel suo progresso elettorale), talvolta analizzando, caso per caso, i teatri degli omicidi.
In effetti, secondo il politologo Giorgio Galli, il “caso Moro” fu pieno di curiose incongruenze (alcune lettere dello statista contenevano frasi insensate se non intese come messaggi subliminali ed inoltre fu clamorosa l’irruzione nel paese di Gradoli, quando Moro era prigioniero in Via Gradoli, a Roma) ed anche l’omicidio Ruffilli (che già minacciato, aprì incautamente la porta a dei finti postini, quando di sabato il servizio postale è notoriamente fermo, e fu ucciso in ginocchio come in un’esecuzione).
Spesso non solo i politici occhieggiavano al movimento delle Brigate Rosse, ma addirittura importanti intellettuali (Leonardo Sciascia, Alberto Moravia ed Eugenio Montale): nel 1977 a Torino alcuni membri della giuria popolare si rifiutarono di partecipare al processo contro Renato Curcio, il fondatore delle Br.
In quest’occasione Sciascia lanciò discutibili dichiarazioni (criticate fortemente dal Partito Comunista), in nome di un pensiero individualista..
«che, non fosse stato per il dovere di non aver paura, avrei rifiutato pure, cercando un medico che con compiacenza mi certificasse un’affezione da sindrome depressiva»
Sciascia o probabilmente Moravia, lanciò la celeberrima dichiarazione “ ne con lo stato ne con le Br”, ripudiando uno stato ed una classe dirigente che non amavamo o apprezzavano.
Prima del caso di Stefano Rodotà, l’ultima affermazione di un membro comunista, occhieggiante alla Brigate Rosse, appartenne a Rossana Rossanda (fondatrice del “Manifesto” ed espulsa dal Pci): la politica disse le seguenti affermazioni, addirittura sei giorni dopo il rapimento d’Aldo Moro.
« Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle BR. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria. Il mondo, imparavamo allora, è diviso in due. Da una parte sta l’imperialismo, dall’altra il socialismo. L’imperialismo agisce come centrale unica del capitale monopolistico internazionale (allora non si diceva “multinazionali”). Gli Stati erano il “comitato d’affari” locale dell’imperialismo internazionale. In Italia il partito di fiducia – l’espressione è di Togliatti – ne era la DC. In questo quadro, appena meno rozzo e fortunatamente riequilibrato dalla “doppiezza”, cioè dall’intuizione del partito nuovo, dalla lettura di Gramsci, da una pratica di massa diversa, crebbe il militarismo comunista degli ani cinquanta. Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm, il suo schema è veterocomunismo puro. Cui innesta una conclusione che invece veterocomunista non è: la guerriglia. »
L’asserzione almeno imbarazzante provocò le giuste proteste del moderato del Pci: Emanuele Macaluso.
“io non so quale album conservi Rossana Rossanda: è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti; né ci sono le immagini di milioni di lavoratori e di comunisti che hanno vissuto le lotte, i travagli e anche le contraddizioni di questi anni. […] Una tale confusione e distorsione delle nostre posizioni da parte degli anticomunisti di destra e di sinistra è veramente impressionante”.
L’atteggiamento d’alcuni membri del Pci di allora, rammenta quello avuto dalle potenze occidentali nei confronti delle prime mosse di Hitler: l’errata concezione di un movimento innocuo.
Hitler tuttavia non mostrava ancora la sua politica di sterminio verso gli ebrei, mentre l’impronta sanguinaria delle Br era già chiaramente presente.
Alla luce di questi episodi, la frase di Rodotà potrebbe apparire realmente un lapsus freudiano, per non dire un’intenzionale ed ambigua asserzione.
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