Oggi l’arruolamento femminile è un costume diffuso: più nessuno si scandalizza a vedere una donna in divisa. Basti pensare che le donne soldato costituiscono il 4% del personale militare tedesco e l’8% di quello inglese, fino a rappresentare il 9% del totale nelle milizie inglesi e ben il 10% nell’esercito della Francia, paese in cui le donne vengono reclutate da almeno cinquant’anni. Anche la nostra più “arretrata” Italia, in considerazione dei progressi europei in merito, si è decisa ad aprire le porte al reclutamento femminile, con la legge 380 dell’Ottobre 1999, in cui si sancisce il principio delle pari opportunità, di carriera e impiego, per il personale di ambo i sessi: le prime donne reclutate furono inviate in Bosnia, e successivamente presero parte a svariate missioni internazionali che hanno visto impegnata l’Italia a fianco della Nato, non ultime le spedizioni in Afghanistan e in Iraq. Le donne soldato rappresentano oggi, a oltre dieci anni dalla loro ammissione nell’esercito italiano, il 3% delle truppe nostrane.
Un progresso della civiltà? Un passo verso una nuova era di eguaglianza sessuale? Senza dubbio.
Eppure, a gettare lo sguardo all’indietro attraverso i secoli, ci si accorge che la recente regolarizzazione delle donne soldato dell’ultimo scorcio del XX secolo arriva in realtà come riconoscimento istituzionale di una figura, quella della donna guerriera, che è sempre esistita, affondando le radici in un’antichità oscura e remota, in cui vigeva l’ombra di un oggi dimenticato matriarcato, e che si è tramandata nei secoli passando sotto silenzio, emergendo di tanto in tanto nella figura di qualche eroina ancora oggi commemorata. La figura della donna guerriera nasce agli albori della civiltà, all’incrocio tra mito e storiografia, tra epopea e odierno riscontro archeologico: le sue tracce ricorrono a partire dalla leggenda delle Amazzoni, le famose guerriere di cui per primi ci diedero testimonianza gli antichi Greci.
Le leggendarie Amazzoni. Vergini guerriere, spietate e feroci come, e forse più degli uomini, cavallerizze armate di arco e frecce, le Amazzoni popolano il panorama storico-letterario della Grecia mitologica, comparendo in primis nell’Iliade, oltre che nei resoconti storici di Erodoto e Strobone, che ne descrivono usi e costumi. I racconti etnografici dell’epoca, incerti rispetto alla provenienza delle Amazzoni (alcuni le ritengono imparentate con i guerrieri nordici, in particolare i Celti, che, migrando, sarebbero venuti in contatto con gli Sciti), sembrano tuttavia concordare sulla loro collocazione geografica in Scizia, antica regione dell’Asia Minore, abitata appunto dagli Sciti, popolazione nomade di etnia iranica, le cui donne combattevano e vestivano come gli uomini, restando nubili fino a quando non uccidevano un uomo in battaglia. Confusa è anche l’etimologia del termine “amazzone”: alcuni ritengono che si tratti di una parola composta da un prefisso di privazione, “a”, seguito dalla parola “mazos”, versione ionica di “mastos”, seno, quindi letteralmente “senza seno”, epiteto che deriverebbe dall’abitudine leggendaria delle Amazzoni, descritta anche da Diodoro Siculo, di mutilarsi, o di bruciarsi durante l’infanzia in modo da impedirne lo sviluppo, la mammella destra, allo scopo di sviluppare maggiore forza e di eliminare l’oggettivo impedimento del braccio destro a tendere l’arco. Altri tuttavia intendono invece la “a” iniziale come rafforzativo: le Amazzoni sarebbero dunque donne dai grandi seni, così come confermerebbero alcune raffigurazioni antiche, in cui il mito della donna guerriera, protettrice della vita, si legherebbe all’eco – indubbiamente matriarcale – della donna-madre feconda, generatrice di vita. Altri ancora fanno risalire l’origine del termine alla parola armena “masa”, che significa “luna”: le Amazzoni sarebbero dunque, secondo questa interpretazione, sacerdotesse della luna di origine armena, un’idea che trova conferma nella leggendaria collocazione che ne dà Strobone, appunto in Armenia, accanto ai Gargareni, popolo costituito da soli uomini con cui le Amazzoni erano solite accoppiarsi una volta l’anno per procreare, trattenendo poi le figlie femmine presso di loro e inviando i maschi ai Gargareni, che, ignorandone la precisa paternità, li adottavano senza sapere chi fossero i loro genitori.
Da Boadicea a Giovanna d’Arco. Ma la storia delle donne guerriere non si ferma alla leggenda delle Amazzoni. Andando avanti nei secoli, le vicende delle eroine guerriere appaiono sempre meglio documentate: se il nome di Boadicea o Budicca (a lungo dimenticata durante il Medioevo e poi riabilitata come eroina e simbolo culturale del Regno unito nell’età vittoriana), regina dei Britanni oppressi dalla dominazione romana che guidò la ribellione contro il proconsole Paolino (61 d.C.), avvelenandosi poi, sconfitta, prima di essere catturata dal nemico, è ancora avvolto dalla leggenda, molto più nota è la vicenda dell’eroina nazionale e patrona di Francia, canonizzata nel 1920 da Benedetto XV dopo aver trovato la morte sul rogo (1431) in seguito a una condanna per eresia, la “pulzella d’Orléans” che, in preda a una crisi mistico-religiosa, chiese e ottenne dal sovrano Carlo VII d’essere messa a capo di un esercito, riscattando il popolo francese dall’oppressione britannica e ribaltando con il suo fervore le sorti della Guerra dei Cent’anni. Le donne guerriere fanno la loro comparsa un po’ dappertutto durante il Medioevo, nonostante la morigeratezza dei costumi di un’epoca che, a posteriori, può quasi definirsi misogina: la presenza di donne in armatura è storicamente documentata nelle cronache delle crociate (1100-1200). Il cronista ‘Imàd ad-din, segretario di Norandino e di Saladino, le ricorda così: “Tra i franchi vi sono infatti delle donne cavaliere, con corazze ed elmi, vestite in abito virile, che uscivano a battaglia nel fitto della mischia, e agivano come gli uomini d’intelletto, di tenere donne che erano, ritenendo tutto ciò un’opera pia”.
Dalle guerriere del Dahomey alle “amazzoni” di Gheddafi. Tracce dell’antica usanza di impiegare le donne in corpi armati speciali, con funzioni spesso molto più qualificate rispetto alle milizie ordinarie composte da soli uomini, si ritrovano ancora oggi in Africa nell’antico regno di Dahomey, l’attuale Benin, ex colonia francese. Agli albori della colonizzazione, questo corpo speciale di soldatesse, che destò il vivo stupore dei funzionari e soldati europei, contava almeno 4000 unità ed era stato creato dal re Agadja (1708-1740) con funzione di guardia del corpo personale. Una tradizione che pare affondare le radici in un passato remoto almeno quanto quello delle Amazzoni “caucasiche”, anche se è da escludersi totalmente la possibilità di una reciproca influenza tra le due popolazioni dell’Asia minore e dell’Africa Sub-sahariana: cosa che ancora una volta rimanda a un’epoca mitica in cui i neonati esseri umani erano organizzati in società dall’impronta matriarcale, come confermerebbero anche i numerosi reperti archeologici, consistenti nelle tombe di varie donne guerriere, seppellite insieme alle proprie armi, rinvenuti nei primi anni ’90 al confine tra Russia e Kazakistan dall’archeologa Jeannine Davis-Kimball, che testimoniano anche in quella zona il passaggio, avvenuto circa 2500 anni fa, delle leggendarie Amazzoni. Una tradizione millenaria, che va dall’Asia all’Africa, all’antica Grecia e, non ultima, all’America Latina (che, peraltro, ha anch’essa la sua eroina guerriera, l’apache Lozen): si narra infatti che il Rio delle Amazzoni prenda nome proprio da queste guerriere, avvistate per la prima volta nel 1542 dai colonizzatori spagnoli che navigavano l’immenso fiume. Una tradizione che in Africa resiste ancora, conservando tutto il fascino della leggenda, nella Libia di Gheddafi, la cui guardia personale è tradizionalmente composta da giovani donne in divisa color cachi e basco rosso, come è stato possibile ammirare anche nella sua recente visita romana.
Wang Cong’er e le samurai Giapponesi. Anche l’estremo Oriente ha avuto le sue donne combattenti: si va da Wang Cong’er, (1777-1798) ribattezzata la “vera” Mulan, che, una spada in ciascuna mano, combatté a capo di un’orda di rivoltosi contro l’esercito della dinastia Quing, per vendicare la morte del marito, alle donne samurai del Giappone medioevale, che, pur essendo impostato su basi spiccatamente patriarcali, riteneva indispensabile insegnare anche alle donne la pratica delle arti marziali. E non di rado il gentil sesso veniva reclutato, soprattutto per operazioni di spionaggio in cui arguzia e furbizia erano doti indispensabili: le donne ninja entravano dunque in azione come spie, per carpire i segreti degli avversari grazie al loro sex-appeal o per infiltrarsi nelle linee nemiche con la loro aria innocente.
La seconda guerra mondiale e le aviatrici russe. E arriviamo alla cronaca contemporanea: nonostante il contributo femminile non fosse ammesso, né particolarmente desiderato nella ex Unione Sovietica, bisogna tuttavia segnalarne il massiccio impiego soprattutto nell’aviazione russa, preceduto soltanto dall’utilizzo, in veste non ufficiosa, di un corpo di donne pilota statunitensi, che tuttavia non erano considerate “militari” e svolgevano tutta una serie di compiti di non-combattimento. A condurre le donne russe al fronte fu l’avanzata delle truppe tedesche, che invasero la Russia in profondità e con estrema violenza: le donne furono impiegate in tutti i settori disponibili, ma le più famose sono senza dubbio le donne pilota, prima fra tutte Marina Raskova, pioniera dell’aviazione femminile russa e fondatrice delle cosidette “Streghe della notte”, unità composte da piccoli aerei di legno che, volando lentamente, erano impossibili da mirare e quindi colpire per i più avanzati e veloci velivoli nemici, con funzioni prevalentemente di disturbo e di bombardamento notturno.
Questi sono solo alcuni piccoli spaccati su un fenomeno che ha sempre caratterizzato le più variegate società e culture, dall’antichità ad oggi: in verità non si contano le migliaia e migliaia di donne che, al pari degli uomini, hanno perso la vita in battaglia, dando il loro silente contributo alla Storia. Possiamo dire con certezza che figure fantastiche come Fantaghirò e Xena non sono una leggenda infondata, ma verosimili realtà.
Giuliana Gugliotti
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