Machiavelli non avrebbe mai fatto di Mattia Pascal un principe: qualche rosso e qualche zero azzeccati sulla ruota della fortuna, ma troppe poche virtù. Mattia,protagonista del romanzo insieme al suo “doppio”, Adriano Meis, è davvero una figura
moderna di uomo, prima ancora che un personaggio. Sono in molti della mia generazione (e parlo degli anni ’70), che non faticano a coglierne alcune similitudini, alcune familiarità con il proprio vissuto: cresciuti all’ombra delle tivvù commerciali, chi
non ha trovato difficoltà nel riconsiderare il mondo degli adulti, dopo aver compreso che non è un grande “drive-in”, dove non si paga mai la consumazione ? Chi non ha imparato a sue spese che una maschera non basta a renderci invincibili come un super-eroe, ma ci mostra se possibile ancora più limitati e fragili ? Il fascino di Mattia/Adriano sta in questo: nella sua attualità, impreparato ad affrontare un mondo che cambia, mimetizzandosi per non riconoscersi, fino a cambiarsi chirurgicamente, senza voler affrontare un vero cambiamento interiore. Un fascino che può anche
infastidire, come quando ci si allontana da un’immagine di noi che non ci piace, fino a ritenerla inverosimile. Anti-eroe senza qualità e identità, lo si assimila all’idea di un moderno Amleto, afflitto dal peso dell’esistenza: un eroe affatto classico e mitologico,
ma molto più umano e fallibile. Mattia “è” l’inetto dei romanzi novecenteschi, il suo treno non è quello delle occasioni e delle opportunità, ma è il treno di una fuga dal labirinto esistenziale che non riuscirà mai. In difetto con le amicizie sia maschili che femminili, morta la madre perderà il suo rifugio, ritrovandolo forse tra i polverosi volumi della biblioteca di Meragno, ormai giunto al tempo dei ricordi, dei quali proverà
il gusto di trascrivere in un memoriale, ma non l’ardire di farlo, dovendo essere spinto anche in ciò dal suo collega “di scaffale”, don Eligio Pellegrinotto. L’antieroe pirandelliano nasce dal riflesso di un disagio, quello economico, sentimentale e esistenziale del suo autore, in un momento particolarmente infelice della sua vita. Il Mattia di Pirandello non condividerebbe nemmeno le conclusioni ottimistiche sul proprio stato di “diversità” a cui giunge, dopo un travagliato esame di coscienza, un altro illustre personaggio della letteratura: Zeno Cosini di Svevo. Le giudicherebbe forse troppo audaci, nel ribaltare la propria debolezza in punto di forza. Tra i due il vero
infermo è Mattia, capace solo di assistere alla vita degli altri, considerandosi infine morto tra i vivi. E mentre sorridendo pensiamo al sentenzioso giudizio di “fallimento intellettuale”, attribuito al romanzo nel 1904, non possiamo oggi far finta di non notare la nostra somiglianza con “Adriano” quando siamo al lavoro, per poi ritrovarci un po più “Mattia”, di ritorno alle nostre case.
Machiavelli non avrebbe mai fatto di Mattia Pascal un principe: qualche rosso e qualche zero azzeccati sulla ruota della fortuna, ma troppe poche virtù. Mattia protagonista del romanzo insieme al suo “doppio”, Adriano Meis, è davvero una figura
moderna di uomo, prima ancora che un personaggio. Sono in molti della mia generazione (e parlo degli anni ’70), che non faticano a coglierne alcune similitudini, alcune familiarità con il proprio vissuto: cresciuti all’ombra delle tivvù commerciali, chinon ha trovato difficoltà nel riconsiderare il mondo degli adulti, dopo aver compreso che non è un grande “drive-in”, dove non si paga mai la consumazione ? Chi non ha imparato a sue spese che una maschera non basta a renderci invincibili come un super-eroe, ma ci mostra se possibile ancora più limitati e fragili ?
Il fascino di Mattia/Adriano sta in questo: nella sua attualità, impreparato ad affrontare un mondo che cambia, mimetizzandosi per non riconoscersi, fino a cambiarsi chirurgicamente, senza voler affrontare un vero cambiamento interiore.
Un fascino che può anche infastidire, come quando ci si allontana da un’immagine di noi che non ci piace, fino a ritenerla inverosimile. Anti-eroe senza qualità e identità, lo
si assimila all’idea di un moderno Amleto, afflitto dal peso dell’esistenza: un eroe affatto classico e mitologico, ma molto più umano e fallibile. Mattia “è” l’inetto deiromanzi novecenteschi, il suo treno non è quello delle occasioni e delle opportunità, ma
è il treno di una fuga dal labirinto esistenziale che non riuscirà mai. In difetto con le amicizie sia maschili che femminili, morta la madre perderà il suo rifugio, ritrovandolo forse tra i polverosi volumi della biblioteca di Meragno, ormai giunto al tempo dei ricordi, dei quali proverà il gusto di trascrivere in un memoriale, ma non l’ardire di farlo, dovendo essere spinto anche in ciò dal suo collega “di scaffale”, don Eligio Pellegrinotto.
L’antieroe pirandelliano nasce dal riflesso di un disagio, quello economico, sentimentale e esistenziale del suo autore, in un momento particolarmente infelice della sua vita. Il Mattia di Pirandello non condividerebbe nemmeno le conclusioni ottimistiche sul proprio stato di “diversità” a cui giunge, dopo un travagliato esame di coscienza, un altro
illustre personaggio della letteratura: Zeno Cosini di Svevo.
Le giudicherebbe forse troppo audaci, nel ribaltare la propria debolezza in punto di forza. Tra i due il vero infermo è Mattia, capace solo di assistere alla vita degli altri, considerandosi infine morto tra i vivi.
E mentre sorridendo pensiamo al sentenzioso giudizio di “fallimento intellettuale”, attribuito al romanzo nel 1904, non possiamo oggi far finta di non notare la nostra
somiglianza con “Adriano” quando siamo al lavoro, per poi ritrovarci un po più”Mattia”, di ritorno alle nostre case.
PATRIZIA DIOMAIUTO
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