L’altra Unità

"E' impensabile che 1000 straccioni male armati abbiano conquistato il Regno delle Due Sicilie, forte di 140mila soldati e con una flotta seconda soltanto a quella inglese, così come la retorica postunitaria ci ha insegnato fino ad oggi" ci spiega il Dott. Di Paola

1861-2011. Il 17 Marzo è arrivato, e con esso la festa nazionale per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Le scuole e gli uffici sono rimasti chiusi, ovunque è stata festa, e gli italiani hanno avuto la loro parte di gloria commemorando un secolo e mezzo di storia congiunta, ricordando a se stessi e al mondo i successi raggiunti, le battaglie, affrontate e vinte insieme, perché, si sa, l’unione fa la forza, e l’unità italiana, oggi, appare a tutti come la giusta realizzazione della sorte ineluttabile di un popolo, separato nei secoli dall’ingerenza di altrui interessi, ma da sempre destinato, e desideroso, di essere unito. L’unione fa la forza, è vero. Ma l’Italia unita è davvero più forte?

Il 17 Marzo è arrivato, e come è arrivato così è repentinamente trascorso, oggi già relegato nella memoria di un passato che domani gli storici verranno a raccontarci come celebrazione di una gioiosa verità, confezionata ad arte per gli articoli commemorativi e i manuali scolastici. La festa dell’unità d’Italia è passata, tra fuochi d’artificio e nostalgici, inneggianti discorsi, ma la questione dell’unità, della sua giustezza e della sua concreta attuazione, rimane. E, a leggere la cronaca nazionale degli ultimi giorni, sembra davvero che la gioia di stare insieme sia passata fin troppo in fretta; e l’unità di un’Italia, controversa e molto poco patriottica, se confrontata allo sfegatato nazionalismo dei nostri cugini europei, sembra essere stata troppo presto dimenticata. La situazione di Lampedusa ne è un esempio lampante. L’unità d’Italia si è fermata in Sicilia; non è riuscito, quel sentimento patriottico tanto sbandierato da politici e intellettuali delle alte sfere, di cui il nostro popolo è invece così fieramente privo, a traversare quello stretto braccio di mare che separa la gamba (dello stivale) dalla punta del piede. A Lampedusa la questione dell’unità italiana si riaccende, ma la sua non è la fiamma confortante e avvolgente dello stare insieme, bensì una miccia esplosiva a cui manca completamente quel calore unitario di sentimentale patriottismo. A Lampedusa, la gente si domanda che senso abbia l’unità d’Italia. Che senso ha stare insieme, quando l’Italia continua a mostrare la sua doppia faccia, quando non c’è uniformità di scelta e di pensiero?

L’Italia, evidentemente nell’esempio di Lampedusa, si spacca a metà, tra un Sud che, suo malgrado, si trova costretto dalla legislazione internazionale ad accogliere clandestini sul proprio suolo “europeo”, e un Nord che gli immigrati li rifiuta con decisione, politicamente e popolarmente, fingendo che la cosa non l’interessi. A Lampedusa si chiedono dove sia il resto d’Italia. E non hanno torto, perché l’altra parte d’Italia non c’è per Lampedusa. Né per la Sicilia, la Calabria, la Puglia, la Campania, che si troveranno, molto probabilmente, sole, a fronteggiare un’emergenza che dovrebbe riguardare l’intero paese, ma invece sembra interessarne solo metà. E se è vero che, per quanto riguarda la questione immigrati, anche il Nord ha fatto la sua parte, quello che colpisce è la assoluta mancanza di unità di intenti di un popolo che è inevitabilmente troppo diviso, troppo diverso per sentirsi realmente unito. L’Italia unita è una vecchia coppia di coniugi, rassegnata dopo tanti anni di infelice unione, che finge che le cose vadano bene per evitare una dolorosa separazione.
L’unità d’Italia è solo una facciata da mostrare all’estero, per far vedere agli altri che si è uniti e ci si vuol bene, mentre in casa ci si scanna e volano i piatti delle rivendicazioni, lanciati contro l’altro, odiato, eppur amato perché nonostante tutto indispensabile alla propria sopravvivenza, coniuge. Al grido dell’Italia unita fa da contralto la voce della contro-unità, le urla di quei popoli che dall’unità si sentirono e si sentono tuttora defraudati, ingannati, depauperati. La questione meridionale, oggi come allora, è più viva che mai. Ovunque si inneggia all’antica dominazione borbonica del Regno delle due Sicilie, auspicandone una restaurazione, perché sotto Ferdinando II si stava meglio, perché il Regno con Napoli capitale aveva le sue fabbriche, la sua ferrovia, il suo grado di industrializzazione, la sua ricchezza. Perché quando arrivarono i Savoia, tutto fu smantellato, i capitali trasferiti al Nord, le fertili terre feudali lasciate in mano ai briganti, futuri mafiosi e camorristi, la forza lavoro costretta a emigrare verso le laboriose terre della pianura padana. Gli altri, i fautori dell’Italia unita, e i sostenitori della causa nordista, insistono a ricordare che l’arretratezza del Meridione fosse un dato di fatto già prima dell’unità, che la cosiddetta questione meridionale sia un vessillo strumentale agitato da popoli il cui scontento affonda le radici in un passato ben più remoto di quel fatale 1861. Da che parte stia la verità, a 150 anni di distanza, è quasi impossibile stabilirlo; e, fatto ancora più sorprendente, non dovrebbe interessare a nessuno. Il passato è passato, guardare indietro con acrimonia non servirà a migliorare un presente che già parla da solo, ripetendo ancora e sempre una stessa, inascoltata verità. E mentre i nordisti e i sudisti continuano a farsi la guerra, cercando di sostenere ognuno le proprie individualistiche ragioni, a guadagnarci sono sempre i soliti, pochi potenti. E la storia si ripete in un circolo senza fine, riportando in voga circostanze e consuetudini che non muoiono mai, oggi come allora. L’Italia unita non esiste, perché la gente non l’ha mai desiderata; l’unità d’Italia è un’invenzione strategica, che, con la scusa della liberazione di popoli oppressi da dominazioni straniere e separati, come fratelli alla nascita, che desideravano riunirsi (quando invece camminavano tanto meglio ognuno per la sua strada), ha perseguito interessi politici di pochi.

L’unità d’Italia l’hanno fatta quei pochi che, per motivazioni assolutamente divergenti, erano interessati a mantenere un dominio sulla fertile penisola italica: negli originari accordi di Plombières, che avrebbero dovuto assicurare alla Francia di Napoleone III l’acquisizione di due terzi della nostra bella penisola, l’unità italiana non era contemplata; l’obiettivo congiunto dei Savoia, nella lungimiranza della real politik cavouriana, e dell’imperialismo napoleonico di seconda mano, era semplicemente quello di arginare l’avanzata austriaca, fondando una federazione “italica” di sei regni, equamente divisi tra i Savoia, Napoleone, il Papa e i Borbone: ma, quando l’opinione pubblica francese insorse dinanzi alla prospettiva di una parziale perdita del potere temporale del Papa, Napoleone fu costretto a capitolare, concedendo allo Stato Sabaudo l’annessione della sola Lombardia, tra i territori italiani che erano stati sottratti all’Austria, mentre in Europa prendeva corpo, soprattutto nelle intenzioni inglesi, la felice prospettiva della creazione di uno Stato Italiano indipendente, cuscinetto tra Austria e Francia, che avrebbe ristabilito gli equilibri internazionali. E, in questo vuoto di potere lasciato dalla dipartita dei francesi, si insediarono le ambiziose mire sabaude, sotto la guida dell’abile stratega e primo ministro, Camillo Benso conte di Cavour.

“Bisogna dire che l’idea di unire l’Italia e liberarla dalla dominazione austriaca si era diffusa già dalla prima guerra di indipendenza italiana (1848) grazie alle idee liberali di Mazzini – ci spiega il Dottor Giovanni Di Paola,  appassionato  di storia moderna e della questione dell’unità italiana. “Inizialmente venne paventata una situazione unitaria sotto l’egida borbonica, perché il Regno delle due Sicilie, politicamente, economicamente e culturalmente era quello che aveva un maggior peso in Italia; tuttavia i Borbone, profondamente devoti al Papa, non avrebbero mai osato inimicarsi lo Stato Pontificio, quindi la proposta, che pure non fu mai fatta esplicitamente, non venne mai presa in considerazione”.
“A emergere furono invece – prosegue Giovanni – le velleità espansionistiche del fin troppo zelante Cavour, che, galoppando l’enfasi unitaria, prese la palla al balzo, solo e unicamente per offrire maggior respiro al piccolo Regno di Sardegna, che già versava in difficoltà economiche. Da questo punto di vista, si può dire che i tre ‘Padri della Patria’ agirono per motivi differenti, e per fini ancora più diversi. Va detto anche che – prosegue Giovanni – la maggior parte della popolazione italica se ne infischiava dell’unità, come già aveva dimostrato nel ’57 la fallimentare esperienza del Pisacane, che fu preso a forconate dai ‘cafoni’ di Sansa, nel salernitano, e non certo accolto come liberatore. L’Unità è stata l’azione di una élite di pensatori che hanno agito per motivi diversi: lo stesso Cavour era ‘nemico’ di Garibaldi, come si vide poi nelle sedute parlamentari della nuova Italia, dove i due si apostrofarono in tutte le maniere possibili, un po’ come accade oggi… Cavour, uomo d’affari ed abile politico, pensava come avrebbe fatto il Duce anni dopo: il suo obiettivo era costruire uno spazio vitale per il piccolo regno Sabaudo, anche a spese del Regno delle due Sicilie, dalla cui conquista, Cavour lo sapeva, sarebbero potute derivare ingenti ricchezze. Addirittura – ci svela Giovanni – Garibaldi era d’accordo con Vittorio Emanuele II quando organizzò la spedizione dei Mille: Francesco II, ultimo re di Napoli, giovane monarca senza esperienza, e inoltre cugino di Vittorio Emanuele, preferì ritirarsi a Gaeta per non versare il sangue del suo popolo, soprattutto dopo il tradimento degli alti ufficiali dell’esercito (primo fra tutti il Landi), ai quali fu proposto di transitare, mantenendo gradi e paga, nel nascente esercito italiano, in seguito macchiatosi di crimini etnici paragonabili a quelli delle SS tedesche… Così, quando i mille arrivarono a Calatafimi, si trovarono dinanzi a un esercito i cui capi si erano venduti, anche se i soldati continuarono a lottare nelle cittadelle di Messina, Gaeta e Cittadella del Tronto, l’ultima ad ammainare il Giglio Borbonico. Sarebbe stato altrimenti impensabile, per 1000 straccioni male armati, conquistare il Regno delle Due Sicilie, forte di 140mila soldati e con una flotta seconda soltanto a quella inglese, così come la retorica postunitaria ci ha insegnato fino ad oggi. Così, sulle menzogne fu fondata la nostra Unità, per aprire poi il dolorosissimo capitolo del ‘brigantaggio’, represso nel sangue, come dimostrano i fatti di Fenestrelle, primo campo di concentramento italiano dove, al pari dei campi tedeschi, furono confinati tutti i soldati borbonici che rifiutarono di transitare nell’ Esercito Italiano, oppure le stragi di Casalduni e Pontelandolfo”.

E, oggi come allora, niente sembra cambiato. “Non ci sarà mai un’Italia veramente unita – conclude il dott. Di Paola – con i presupposti colonialisti dei politici del Nord, che ancora ci trattano da coloni, malgrado le buone intenzioni di Mazzini e Garibaldi”. Riflettiamo, gente…

Giuliana Gugliotti

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