Ha poco meno di sessant’anni, Cesare Moreno, quando decide di abbandonare la sua professione di maestro elementare per diventare maestro di strada. Una scelta coraggiosa, dettata forse più da una necessità interiore che da una riflessione consapevole. Una scelta improvvisa, non premeditata, che proprio per questo si è rivelata azzeccata, non viziata da elucubrazioni intellettualoidi, come sempre sono le scelte che facciamo sotto l’influsso di una misteriosa forza di volontà. Oggi che il “Progetto Chance” non esiste più per mancanza di finanziamenti (!), e che Cesare Moreno continua a impegnarsi nella lotta alla dispersione scolastica con un nuovo progetto, “Evai”, che vede coinvolti numerosi professionisti, studenti universitari e volontari a vario titolo, a quella scelta si può dare una collocazione storico-temporale, una motivazione sostanziale e sostanziosa.
Quando si guarda al passato col famoso senno di poi, ogni vita che sia stata vissuta a pieno e si sia meritata quest’appellativo sembra aver camminato da sempre verso un unico obiettivo, che se strada facendo era ancora sconosciuto, diventa palese alla luce di quanto accade poi. Pare così che tutta la vita di Cesare Moreno sia stata proiettata verso quella scelta, alla quale è infine approdata realizzando se stessa e le ragioni per cui era stata vissuta.
“Da un certo punto di vista è come se fossi stato un ragazzo di strada fino a trentotto anni”.
Dall’infanzia trascorsa a San Giovanni a Teduccio, quartiere difficile della periferia di Napoli, quando a scuola si andava con il pulmino, lo “scassone”, come lo ricorda Cesare, una vecchia giardinetta ballonzolante sui sanpietrini e affollata di ragazzini e ragazzacci, i primi bersaglio dei secondi che, già allora, facevano vita di strada e di scuola non ne sapevano – e non volevano saperne – niente; alla giovinezza trascorsa tra l’università, la militanza nel movimento di Lotta Continua e una serie di lavori irregolari, agli anni da insegnante elementare nei quartieri più disagiati dell’hinterland napoletano, a lottare quotidianamente contro la miseria e l’abbandono, la mentalità camorristica strisciante e l’assenza – in tutte le sue forme, dallo Stato alla famiglia. Un’assenza che Cesare ha avuto modo di toccare con mano, non soltanto grazie alla carriera da insegnante, ma anche durante gli anni trascorsi come ricercatore a nero, quando ha collaborato a un’indagine sull’orientamento scolastico post scuola dell’obbligo, accorgendosi che la dispersione scolastica era tutt’altro che un fenomeno marginale. Un’assenza che è a sua volta un vuoto: vuoto di potere, vuoto di significazione. Assenza di simboli che genera impossibilità di comunicare. Un’assenza che, come ogni vuoto che si rispetti, esercita su chi si china a guardarla sull’orlo del suo abisso una forza quasi magnetica, risucchiante. Quel vuoto ha travolto Cesare in un vortice, un caos represso sotto una coltre di calma apparente in cui Cesare Moreno tenta da diversi anni di mettere un po’ d’ordine.
“Quando sono entrato in classe sapevo che il problema fondamentale non è quello che sai ma quello che sei e come intendi entrare in rapporto con i ragazzi. Per esempio una delle cose che facevo era di farli parlare mentre prendevo appunti. Questa cosa li spiazzava moltissimo perché erano abituati a un professore che parlava, invece avevano di fronte un professore che ascoltava. All’inizio hanno pensato che fossi una specie di poliziotto che faceva il verbale delle loro cattiverie. Poi me l’hanno chiesto: «Perché scrive?». E io ho detto: «Scrivo quello che voi dite». «Perché a chi lo dovete dire?». «A nessuno. Quello che dite voi è importante e io devo capire come siete fatti voi».”
Già. Perché l’unico modo per entrare in contatto con l’altro è cercare di capirlo, instaurare un rapporto dialettico basato sulla reciprocità in cui è fondamentale trovare dei codici di comunicazione condivisi: e quando l’altro è un ragazzino che passa le sue giornate per strada, o le mattine a fare la coda a Poggioreale, o i pomeriggi a far passare la sbornia a un genitore, le sere ad accudire fratelli e sorelle, l’unico modo per guadagnare la sua fiducia è avere rispetto per la sua vicenda umana, per quello che sa e che può insegnare con il solo esempio della sua vita, anche a un adulto che di vita alle spalle ne ha molta di più.
Perché imparare è un processo dialogico, che può innescarsi solo all’interno di una relazione di reciprocità in cui ci si dà, si dà e si riceve qualcosa. Cesare Moreno l’ha capito, e cerca di metterlo in atto quotidianamente, questo principio maieutico. Penso a lui come a un personaggio a metà tra un Marco Tullio Sperelli (celebre maestro di Io speriamo che me la cavo) e un San Filippo Neri contemporaneo, che, coi sandali ai piedi (indossati per la prima volta come segno di protesta contro le istituzioni inadempienti e mai più dismessi) va girando per le strade della città a recuperare bambini e ragazzi che altrimenti si perderebbero, a tirarli via per i capelli dall’orlo di un baratro che di volta in volta è la galera, la tossicodipendenza, la morte. Cesare Moreno è nato per insegnare: non le materie scolastiche, ma la vita stessa. Investito, come lui stesso afferma, di un “mandato paradossale”, quello di risanare ciò che è corrotto in un contesto che ha fatto e fa di tutto per continuare a corrodere, rovinare, devastare. Ma Cesare Moreno non si arrende, e va avanti. Per vocazione, ma soprattutto per caparbietà.
Giuliana Gugliotti
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