«Un regista non può non innamorarsi di un attore così». E’ quello che continua a ripetere Ferzan Ozpetek quando parla di Elio Germano, la sua musa, la sua ossessione, la “magnifica presenza” del titolo del nuovo film del regista turco, italiano d’adozione, che torna al cinema dopo il successo di ‘Mine Vaganti’, con una storia semplice, tenera, che mescola leggerezza e dramma ad un pizzico di paura, quel tanto che basta a rendere avvincente questo buffo mistero da cui prova a districarsi Pietro (Elio Germano), un ragazzo gay “che non riesce ad essere gay”, sensibile, solitario, maniaco dell’ordine, pasticciere di notte e aspirante attore di giorno. Arrivato a Roma dalla Sicilia per inseguire un amore impossibile, Pietro si ritrova a vivere nella casa dei suoi sogni nel quartiere di Monteverde vecchio. Una casa antica, malmessa, ma bella e spaziosa, e soprattutto solo sua. Peccato che eccentrici ed eleganti inquilini già la occupino da tempo, turbando la sua tanto anelata privacy. Chi sono queste presenze? Cosa vogliono da Pietro? E soprattutto, perché solo lui può vederle e sentirle? Tante domande che trovano via via la loro risposta: quegli uomini e quelle donne che Pietro vede in casa, tutti imbellettati e vestiti nei loro abiti di scena anni ’40 – interpretati egregiamente da Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Andrea Bosca, Claudia Potenza, Cem Yilmaz, e il piccolo Matteo Savino -, altri non sono che gli attori della compagnia teatrale Apollonio, scomparsa nel nulla 69 anni prima, e bloccata lì, da quella sera del 1943 in cui sono fuggiti dal loro teatro, senza sapere chi e perché li ha traditi.
Spiriti tormentati e intrappolati nel tempo o attori che recitano? Più semplicemente, realtà o finzione? È da questo interrogativo centrale di pirandelliana memoria che parte il film di Ferzan Ozpetek. E i rimandi a ‘Sei personaggi in cerca d’autore’, sono più che evidenti: dalla frase segreta della compagnia di attori “Ma quale finzione, realtà”, all’idea del finale, con il ritorno degli attori-fantasmi in teatro, su di un modernissimo tram numero 8, per mettere in scena quello spettacolo che non erano riusciti a rappresentare anni prima, un teatro che per una coincidenza – forse voluta -, è lo stesso Teatro Valle di Roma, dove fu messo in scena per la prima volta quel testo. Menzogna e verità del resto, scandiscono anche la vita del protagonista, un ragazzo diverso e non solo perché gay. Pietro è una persona buona, disponibile, un puro di cuore, a disagio tra quella gente cinica disposta a tutto per il proprio interesse. È per sopravvivere a questo cinismo che scegliamo di vivere in una finzione perenne, da cui ne usciamo solo quando prendiamo coscienza di chi siamo e cosa vogliamo. Anche gli spiriti vivono nella finzione rassicurante che si sono costruiti. Intuiscono di essere morti ma non vogliono accettarlo, e per questo hanno paura ad uscire di casa. Per farlo hanno bisogno di Pietro, come lui ha bisogno di loro per credere in sé stesso anche al di fuori di quelle quattro mura. È nell’incontro surreale di questi due mondi, nella solidarietà e nella fiducia reciproca, che tanto Pietro quanto i suoi amici fantasmi possono intraprendere quel percorso di conoscenza interiore che li renderà finalmente liberi.
Realtà e finzione dunque, ma anche memoria storica, nostalgia del passato, difficoltà dei rapporti umani e la diversità, un tema tanto caro alla poetica di Ozpetek espressa qui con tutte le sue caratteristiche più tipiche, dall’elemento gastronomico, alla recitazione corale, e alla colonna sonora sempre protagonista. Nonostante le premesse interessanti e il discreto coinvolgimento nell’inizio, la storia scritta da Ferzan Ozpetek e Federica Pontremoli difetta forse nella parte centrale, proprio quella che dovrebbe far decollare il film in vista di un finale che comunque colpisce per l’impatto emotivo. La colpa è di alcune parentesi narrative aperte e chiuse sbrigativamente (l’incompiuta storia d’amore col vicino di casa Alessandro Roja), e in qualche caso assolutamente superflue (come la scena della Badessa Platinette, deus ex macchina di un mondo sotterraneo popolato da trans uscite fuori da un film di Almodovar). Resta comunque, la grande capacità che Ferzan Ozpetek ha di dirigere con sapienza e maestria un gruppo di attori eccezionali, capaci di brillare anche in piccoli ruoli. Penso al personaggio di Andrea Bosca che dà a Pietro il coraggio e la spinta di cui ha bisogno per buttarsi nella vita, e al cameo prezioso di Anna Proclemer, mito vivente del teatro italiano, e personaggio chiave. Elio Germano dal canto suo, si conferma come uno dei migliori attori del panorama italiano più recente, talmente bravo a calarsi in ruoli sempre così diversi, da far dormire sonni tranquilli al regista che ce l’ha nel cast.
Enrica Raia
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