Conosciuto come mal d’amore, la nostra società è avvolta da un alone di tristezza esistenziale nell’ambito di qualsiasi tipo di rapporto. La dipendenza emotiva, l’imperizia nella gestione di relazioni affettive, l’incapacità di distinguere il bene dal male delle situazioni amorose. Che sia tra esseri di sesso opposto, tra fratelli e sorelle, tra genitori e figli – il mondo attuale ha generato una totale repulsione verso l’altro. Sono meccanismi che non hanno un’origine sempre ben precisa. In passato si cercava nella letteratura una spiegazione per comportamenti non ben identificati. Le storie raccontate nei romanzi erano un input per la ricerca disperata del sé, oggi lo si ricerca nei dialoghi “nascosti” con l’altro. Nascosti perché i social network hanno preso il sopravvento. Si chiacchiera con un nick name, ci si confronta con sconosciuti tramite chat per avvicinarci a qualcuno, talvolta anche in modo ossessivo. Oggi siamo questo, oggi siamo totalmente incapaci di relazionarci attraverso i “vecchi metodi” che prevedevano uno scambio sul piano fisico, anche semplicemente guardandosi negli occhi. Abbiamo la capacità di generare maschere che non ci rappresentano, come se il nostro io non possa avere un rapporto “alla pari” con chi ha dinanzi.
La difficoltà è subentrata nel momento in cui abbiamo assistito ad uno sviluppo involutivo della sfera emotivo – affettiva. Abbiamo bisogno di una persona accanto, chiunque essa sia. Un soggetto su cui avere la predominanza o da cui dipendere, anche se solo mentalmente. Viviamo di quelle che, comunemente, chiamiamo fissazioni e che ci inducono a creare numerosi “oggetti d’amore e di disperazione”. Siamo incapaci di stare soli, di essere autonomi in questa società fatta di ruoli e di schemi. Abbiamo bisogno di primeggiare o di soccombere. Senza concederci alcuna via di mezzo.
La sindrome di Stoccolma rappresenta a pieno l’offuscamento dei ruoli. Vittima e carnefice si confondono su un piano mentalmente sconosciuto e sul quale non si può intervenire senza la consapevolezza del disturbo. Si tratta di una patologia psichiatrica ultimamente molto diffusa. Trae origine da una storia realmente accaduta nel 1973. In seguito ad un furto e ad un rapimento di sei giorni, i dipendenti dell’istituto bancario Kreditbanker di Stoccolma svilupparono sentimenti positivi per i propri aguzzini tanto da chiedere la clemenza nel corso del processo. Nel caso raccontato è stato identificato come un meccanismo – a livello inconscio – di difesa per riuscire a tollerare e a convivere con il trauma generato dalla violenza psicologica e fisica di queste situazioni.
Volendo trasportare quest’esperienza alle relazioni sociali attuali, notiamo che siamo sempre più propensi a perdonare il nostro compagno di vita, a tollerare mancanze di rispetto provenienti da un’amicizia, a sopportare comportamenti illogici dei nostri figli e dei nostri genitori. L’offuscamento dei ruoli, anche in questi casi, viene evidenziato nelle piccole e grandi cose e la storia appone valore a quest’ipotesi. Ogni giorno ascoltiamo racconti di persone che tollerano atti di violenza, quasi giustificandoli e assumendosene la colpa. Non da meno sono gli attacchi verbali frontali che generano nell’altro l’incapacità di ragionare e razionalizzare il vissuto con lucidità. Svalutiamo noi stessi, la nostra figura, il nostro ruolo nel rapporto pur di non perdere il nostro “aguzzino”. Lui, d’altro canto, inveisce sempre più sull’emotivamente debole perché, solo in quel modo, può primeggiare nella sua quotidianità. È come se, indipendentemente dal sesso a cui appartiamo, avessimo generato un’affezione verso la sofferenza emotiva. I social network hanno aggravato questa devianza psichica. Andiamo alla ricerca morbosa di errori e bugie, conosciamo l’altro tramite le tracce lasciate in internet, nascondiamo la nostra identità per non mostrare ciò che siamo. Ciò comporta che il valore dato alla nostra persona viene sempre più deteriorato fino ad annullarsi, determinando – come detto in precedenza – l’incapacità di gestire la relazione con l’altro in quanto inetti nel distinguere il bene dal male (con relativa confusione dei ruoli e accettazione dell’ “insano”). La sindrome di Stoccolma (dei giorni nostri) è talmente intrisa nella società da essere un cancro difficile da estirpare.
Roberta Santoro
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