«Se chiudo gli occhi e torno indietro nel tempo, mi vedo indossare tre maglie soltanto. Quella della Seleccion innanzitutto, l’amore che provo per l’Argentina è ineguagliabile. Le altre due appartengono al Boca Juniors e al Napoli, i miei club, i luoghi, le persone, le partite, i giorni più belli e importanti della mia vita».Diego Maradona sorride, quanto i ricordi lo rapiscano è un’evidenza fisica. Sta bene, ha una bella faccia e un umore allegro. È appena finita la periodica conferenza stampa nella quale illustra ai media arabi i progressi dell’Al-Wasl, il club di Dubai che sta guidando in campionato e nella Emirates Cup, e mentre il suo traduttore, il prezioso Isham, ci fa strada verso l’ufficio Diego mormora un paio di volte tra sé e sé «la Gazzetta», quasi fosse la password per accedere al suo vecchio mondo. Non è la prima volta che parliamo con lui, ma mezz’ora faccia a faccia con Maradona rimane un’esperienza emozionante.
Su un profilo Twitter che porta il suo nome è comparso l’altra notte un messaggio di gioia per la qualificazione del Napoli alla finale di coppa Italia. Era davvero suo?
«No, non uso Twitter. Però sono amici che conoscono le mie emozioni, l’altra sera ero davvero contento. Questo Napoli mi rende contento».
Lavezzi è sempre il suo preferito?
«Il Pocho corre a perdifiato, con e senza palla, squilibra ogni schieramento avversario. Ma Cavani è diventato implacabile, e Hamsik continua a piacermi. Sono bravi e giocano con il cuore. Ho sofferto con loro la sera della Champions».
Sulle due partite il Napoli avrebbe meritato di passare?
«Io dico questo: al San Paolo è andato molto più vicino il Napoli al 4-1 che il Chelsea al 3-2, e quindi il risultato era corto. A Stamford Bridge, purtroppo, non sono riusciti a sopportare la pressione, e li capisco perché un match dentro o fuori su un campo inglese non è facile da maneggiare. Ora è importante che il Napoli arrivi terzo, in modo da replicare subito l’esperienza in Champions. Se già ha fatto bene alla prima partecipazione, mi aspetto che l’anno prossimo vada anche meglio».
Il lavoro combinato di società e allenatore le pare diretto verso un ulteriore salto di qualità?
«La rosa del Napoli è molto interessante perché i giocatori che vogliono imporsi sono in netta maggioranza rispetto a quelli che hanno già dato il meglio. Non conosco bene Mazzarri, ma la sua bravura si vede da come fa giocare il pacchetto arretrato: non ha campioni lì dietro, quelli stanno davanti, ma difendendo di squadra riesce a ovviare alle carenze di talento. Nessuno vuole fare il Baresi, sono soldati ordinati e determinati, tesi al loro obiettivo, e ragionando così il Napoli è tornato ad altezze che non raggiungeva dai miei tempi».
Per poterlo rivedere dal vivo lei deve risolvere il suo contenzioso con l’Agenzia delle entrate. L’altro giorno il direttore, Attilio Befera, ha dichiarato di non avere notizie di una sua volontà di accordo, ma di essere disponibile nel caso a verificarla. Suona come un’apertura. Quando manderà il suo avvocato a trattare?
«Ci voglio andare io da Befera. L’avvocato Pisani ha preparato le carte, ma presto sarò io a chiedere un appuntamento al direttore, perché è ora di chiudere una storia che mi ha avvelenato la vita. Che mi ha sottratto non tanto occasioni di lavoro, quelle vanno e vengono ed è inutile tornarci su, ma diciotto anni di amore dei napoletani».
La materia è delicata, ed è bene lasciare i sentimenti fra parentesi. Al momento lei deve al Fisco italiano 38 milioni, compresi gli interessi di mora che nel tempo hanno gonfiato a dismisura il debito iniziale. Qual è la sua difesa?
«Io non sono un evasore fiscale. Io odio gli evasori fiscali, e dunque trovo questa situazione doppiamente amara. Ho in mano una sentenza del ’94 nella quale si dice che non devo nulla, non ho capito chi abbia poi cambiato le carte in tavola e perché.Ma entriamo pure nel merito. Con Ferlaino e Gallo, il dirigente che si occupava della parte finanziaria e che adesso non c’è più, ho sempre firmato contratti che recavano la dicitura “libero da imposte”. Il compenso era inteso al netto, se gli accordi fossero stati al lordo la cifra avrebbe dovuto essere superiore. Io non so chi ha combinato questo casino, ma a Befera chiederò perché sono l’unico perseguito. Ferlaino, che firmava i contratti con me, vive tranquillo a Napoli; il mio ex agente Coppola, che li preparava, entra ed esce dall’Italia senza problemi; io, invece, ogni volta che ci metto piede vengo sottoposto all’umiliazione del sequestro di orologi e orecchini».
Quando pensa di chiedere l’appuntamento?
«Non lo so, non è che sono a Dubai in vacanza, ci lavoro. Sarà comunque presto perché come le ho detto voglio chiudere la questione e tornare a Napoli, come si dice, attraverso la porta grande. Non voglio fare né il direttore sportivo né l’allenatore, voglio semplicemente entrare al San Paolo libero di tifare come tutti i napoletani. E poi vorrei tanto bermi un caffè in piazza Plebiscito con Giordano, con Carnevale, con Renica, con tutti i miei vecchi compagni. Le piccole grandi gioie della vita».
Cosa vede di nuovo nel calcio italiano?
«Eh, è tornata la Vecchia Signora. La rinascita della Juventus mi sembra il dato saliente di questa stagione, e ci aggiungo purtroppo perché nella prospettiva di lottare presto per lo scudetto il Napoli ha una concorrente terribile in più».
Trova che il Milan resti favorito in campionato?
«Sì, ha un vantaggio piccolomapesante, e probabilmente è ancora la squadra migliore. E poi ha avuto il coraggio di investire su un allenatore giovane in un mondo che mi pare imbalsamato. Sempre le stesse facce, non mi stupirei se qualcuno richiamasse Trapattoni… Allegri è bravo, ma mi faceva ridere quando fingeva di non pensare al rinnovo del contratto. “Dove vai?” gli gridavo, guardandolo in tv. “Tieniti stretto quel posto, di migliori non ce ne sono”».
Che idea si è fatto di Ibrahimovic, più dominante in Italia che in Europa?
«Allenarlo non deve essere facile, ma è un purosangue. Lo metto quasi allo stesso livello di Cristiano Ronaldo, che ovviamente è secondo solo a Messi. La mia classifica: Messi, Ronaldo, poi Ibra e Rooney a pari merito. E il Kun Aguero è fra i primi dieci, ma in ascesa».
Le piace Balotelli?
«Molto. E’ ancora un ragazzino, e come sappiamo i suoi problemi non sono in campo ma fuori, mapenso che il sostegno quasi paterno di Mancini lo stia portando sulla strada giusta. Ho molto apprezzato anche il fatto che Mancini abbia voluto e saputo dare una nuova opportunità a Tevez; mi ero raccomandato con l’Apache, una volta sfumato il trasferimento al Milan doveva fare pace e l’ha fatta. È una storia che può finire in gloria, se il City vincerà il titolo».
Ritiene Balotelli la chiave del rendimento dell’Italia all’Europeo?
«Non esageriamo, ci sono altri buoni giocatori. Io ne ho in testa soprattutto due: Marchisio, che ha la determinazione a emergere dei campioni, e Pirlo, che pare un ragazzino. Se posso fare un augurio a Prandelli, i recuperi di Cassano e Rossi trasformerebbero la vostra nazionale. Rispetto a una volta mancano i marcatori italiani, quelli che mi seguivano anche quando andavo a prendere l’acqua a bordo campo. È una tradizione scomparsa, e per voi non credo sia un bene».
Pensa anche lei che il ciclo argentino dell’Inter sia concluso?
«Cominciamo col dire che è stati eccezionale. Zanetti, Cambiasso, Samuel, Milito hanno scritto la storia. Poi, il tempo passa per tutti. E a volte qualcuno lo accelera…».
Cosa intende dire?
«È stato Mourinho. Un grande anche per questo, riesce a farsi dare tutto dai suoi giocatori. Non so all’epoca quanta energia avessero ancora Zanetti e Cambiasso, ma Mourinho non gliene lasciò nemmeno una stilla. Egoista? Patto col diavolo? Hanno vinto, questo conta».
Maradona, perché nel 2010 lasciò a casa Zanetti? Quando Otamendi concesse subito a Muller il gol dell’1-0 nel quarto di finale con la Germania, ce lo chiedemmo tutti in tribuna. Senza quello strafalcione il destino della sua Argentina sarebbe potuto essere diverso.
«Lei dice? Io penso semplicemente che anche mio nipote Benjamin sapeva che sulle punizioni Muller andava sul primo palo, avevamo studiato le altre gare della Germania, era una situazione chiara. Ah, che sbaglio… E quante lacrime, in quello spogliatoio. Ma se commetti un errore con il Camerun puoi sperare di sopravvivere, contro i tedeschi no, e io lo so bene. Ricorda la finale dell’86? Un attimo di rilassamento, e dal 2-0 ci ritrovammo 2-2».
Fu in quel momento che Diego Maradona decise come vincere il suo titolo mondiale. Con un assist— magistrale—a Burruchaga. Tutti marcavano lui, e lui seppe beffarli. Lui che adesso aspetta, con aria quasi rassegnata, l’ultima domanda. Beh, gente, riuscire a sorprendere Maradona è qualcosa che non ha prezzo. Diego, non le chiederò se sia stato più forte lei o se è più forte Messi. Le chiedo come sarebbe stato giocare assieme. Il sorriso che gli illumina il volto è una meraviglia.
«Vede, le classifiche fanno ridere ma c’è una dote, soprattutto una, che nessuno ha mai avuto come me e Leo: la velocità di pensiero. Allenandolo, la cosa dimeche rivedevo in lui era la fulminea comprensione di come l’azione si sarebbe sviluppata. È una qualità innata, una cosa da computer. Potendo dialogare con uno che pensa alla stessa velocità, entrambi avremmo dato ancora di più». E qui ci vuole la citazione di una scritta comparsa sulle mura del cimitero di Napoli dopo il primo scudetto: cosa ci siamo persi!
Fonte: La Gazzetta dello Sport
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