«È una proposta a titolo personale», dice Remigio Ceroni non appena si ha notizia della sua riforma dell’articolo 1 della Costituzione. Il Parlamento e il Governo secondo il nuovo carneade, «sono tenuti sotto scacco dalla magistratura e dalla Corte Costituzionale»; ergo servono nuove regole per ridare valore alla volontà popolare.
Tutto ciò accade con sullo sfondo lo scontro sulla giustizia e, per di più, mentre la Consulta si prepara a eleggere il suo nuovo presidente.
Il nome del nuovo presidente si dovrebbe conoscere verso metà giugno. Il Parlamento deve prima eleggere il nuovo giudice costituzionale che riempirà il posto che Ugo De Siervo lascerà vacante per la scadenza del mandato. Ieri è stata fumata nera e, vista l’aria che tira e il quorum richiesto per l’elezione, è difficile che se ne verrà a capo in tempi brevi. Dunque, la Consulta per ora dovrebbe lavorare con 14 giudici guidati pro tempore dall’attuale vicepresidente Paolo Maddalena. È chiaro, se si considera la delicatezza delle decisioni che la Corte dovrà prendere a partire dal conflitto di attribuzioni sul caso Ruby, che la sostituzione di De Siervo – come presidente e come giudice – sta agitando da tempo le acque della politica. In questo contesto è piombata l’idea di riscrivere l’articolo 1 della Costituzione.
«Toghe rosse», grida spesso Silvio Berlusconi. E c’è sempre qualcuno pronto a trasformare in azione le sue parole. È appena accaduto a Milano con la vicenda dei manifesti sulle Br in Procura per i quali il Pdl ha dovuto chiedere scusa. Mentre nessuno ha chiesto scusa per le farneticanti dichiarazioni del palindromo giornalista di sinistra che auspica un colpo di Stato contro Berlusconi e il suo governo.
La Consulta, aveva detto sabato scorso alla convention organizzata dal ministro Michela Vittoria Brambilla, «da organo di garanzia è diventato un organo politico sottoposto al volere dei pm di sinistra». Qualcuno, dunque, doveva incaricarsi di rimettere al centro la volontà popolare, espressa col voto. A bruciare tutti sul tempo è stato proprio Remigio Ceroni.
Ex democristiano, sindaco di Rapagnano, 56 anni, coordinatore regionale del Pdl nelle Marche, il novello Montesquieu è anche uno stakanovista dei lavori parlamentari e, però, in questa legislatura ha presentato soltanto 3 proposte di legge come primo firmatario, inclusa quella sull’articolo 1 della Costituzione che secondo lui dovrebbe suonare così: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale». A cosa punti Ceroni lo si capisce bene dalla lettura della relazione che accompagna la proposta di riforma.
«Né il Presidente della Repubblica, né il Governo, né la Corte Costituzionale, né la magistratura – si legge – sono titolari della rappresentanza politica quale espressione della volontà del popolo sovrano, perché tali organi non vengono eletti dal popolo» come invece accade col Parlamento. Mancando, però, «una dichiarazione solenne» sulla centralità del Parlamento, «è necessario enunciare in maniera espressa e solenne tale principio per evitare che, in tempi di crisi di valori democratici e di violenti contrasti tra le varie forze politiche presenti in Parlamento e nel Paese, quali sono quelli attuali, possa nascere e svilupparsi un’eversione dell’ordine democratico o verificarsi il sopravvento di poteri non eletti dal popolo sovrano e perciò privi di rappresentanza politica, con conseguente e progressivo indebolimento della democrazia e l’instaurarsi della tirannide sotto la forma mascherata della “oclocrazia”, governo tirannico sostenuto dalle masse popolari non erette, se non fittiziamente, a corpo elettorale». Sembra già molto, eppure non è ancora tutto: Ceroni, infatti, si diffonde anche in citazioni da Hegel e Montesquieu sulla divisione dei poteri dello Stato per concludere che la «centralità del Parlamento non è in contrasto con la nostra Costituzione, né con i principi generali del diritto».
Ceroni ha spiegato che la sua «è una proposta a titolo personale». Stesse parole le ha usate Fabrizio Cicchitto uscendo dal vertice con Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. «Dovremmo discutere di cose più serie», aveva addirittura detto Maurizio Lupi poco prima. Capitolo chiuso, dunque? Non è detto.Sarà bene ricordare ciò che accadde a inizio marzo scorso quando Luigi Vitali propose una norma sulla prescrizione che fu immediatamente sconfessata dai maggiorenti del partito, Niccolò Ghedini in testa. Poco dopo, però, la prescrizione breve, seppure sotto altre forme, è ricomparsa all’interno del testo del processo breve, ormai ridotto a una scatola vuota.
Vincenzo Branca
Riproduzione Riservata ®