Ieri, 9 Maggio. Il 9 Maggio è una data cruciale nella storia contemporanea della nostra Italia, una data di cui tanto si è sentito, e di cui ancora a lungo sentiremo parlare. È il giorno dei misteri e delle bugie, il 9 Maggio, delle morti ingiuste e dei segreti, della rabbia e dei perché. Oggi, il 9 Maggio è ufficialmente data consacrata al ricordo delle vittime del terrorismo. Ma sembra ieri – e nel sentire collettivo, in fondo, davvero poco tempo sembra passato – quando quel 9 Maggio 1978 veniva ritrovato, nel bagagliaio di una Renault rossa a Roma, in via Caetani, simbolicamente a metà strada tra le sedi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, il corpo senza vita di Aldo Moro, grande statista e leader, come diremmo oggi in un’accezione moderna, del partito democristiano, nonché simbolo quasi intramontabile (fino a quel fatidico 9 Maggio) della Prima Repubblica. Ma a morire, quel 9 Maggio non è solo Aldo Moro. Un altro fatto di cronaca getta la sua ombra insanguinata su quello stesso, maledetto 9 Maggio 1978, passando tuttavia quasi inosservato: la morte di Peppino Impastato, giornalista e attivista politico impegnato nella lotta e nella denuncia dei suoi compaesani – e parenti – mafiosi, con cui da sempre viveva a stretto contatto, quasi a braccetto, di quei molesti dirimpettai, suoi vicini di casa – i famosi 100 passi che separavano l’abitazione di Peppino Impastato da quella di un altro personaggio, purtroppo altrettanto noto, Don Tano Badalamenti, “Tano Seduto”, come soleva sbeffeggiarlo Peppino nel suo “Onda Pazza a Mafiopoli” su Radio Aut. Una vicinanza fisica che, piuttosto che spingere Peppino Impastato all’indifferenza dovuta all’abitudine, come fa chi alla fine non sente più la puzza del lerciume in cui è costretto a vivere, al contrario ne aumentò il disgusto, l’indignazione, il coraggio e la voglia di combattere per la pulizia, fisica e morale, del proprio paese, Cinisi, della propria terra, la Sicilia, e della propria patria, l’Italia.
Il 9 Maggio 1978 morivano due simboli della nostra storia. Anni bui, quegli anni Settanta. Anni di piombo, come furono chiamati poi, forse perché furono pesanti, pesanti come il piombo delle pistole che venivano usate per gli attentati. Pesanti come le bombe che mietevano morti innocenti. Pesanti come la paura, la diffidenza, quel terrore strategico che si spargeva come nebbia. Pesanti come solo gli ideali, talvolta, possono essere. Passati alla storia come gli anni delle Brigate Rosse, furono in realtà gli anni degli estremismi politici di ogni colore: i movimenti sessantottini, dissipatisi, si erano lasciati dietro una scia incerta, che all’ingresso negli anni ’70 si disperse in varie diramazioni, colorandosi di ideologie politiche che prima non le appartenevano; quel grande flusso di “rivoluzionari”, operai e studenti che lottavano indiscriminatamente contro la guerra in Vietnam e l’egemonia capitalistica degli States, e contro la dittatura comunista dell’URSS e l’oppressione dei regimi stalinisti, quell’immenso fiume che era stato il Sessantotto, si smembrò in piccoli defluenti, di minore larghezza ma di maggiore irruenza, che acquisirono, come l’acqua corrode le rocce e si arricchisce di minerali, i colori politici dei letti in cui si trovavano a scorrere. In Italia, più che nel resto del mondo, la scia del ’68 lasciò solchi profondi, aridi, violenti come lo sono solo i ciechi estremismi, neri come la cronaca degli omicidi, rossi come il sangue versato. Gli anni di Piombo furono gli anni degli estremismi che uccidono; delle Brigate Rosse che giustiziarono Aldo Moro, ma anche Walter Tobagi, gli anni delle stragi di innocenti, quella neofascista di Bologna, quella (presunta) anarchica di Piazza Fontana. Così li ricordano gli storici, quei fatali anni Settanta.
Eppure, a leggere la cronaca degli anni successivi, pare quasi che gli storici si siano sbagliati, facendo coincidere gli anni di piombo con un lasso temporale tanto ristretto: anni di piombo, anni pesanti furono anche quelli degli omicidi di mafia, Peppino Impastato prima, ma anche, nei primi anni Ottanta, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e Franco Imposimato, fino ad arrivare ai gloriosi anni ’90, alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Falcone, Borsellino, Chinnici; Dalla Chiesa, Imposimato, Impastato, Moro. Tutti nomi silenziosamente legati da un unico filo che percorse quegli anni ’70, e ancora oltre fece sentire la sua presenza. A ben vedere, pare che gli anni di Piombo non siano mai finiti. Perché, se è vero che il Sessantotto fu una lotta proletaria per l’emancipazione delle masse da qualunque tipo e forma di potere autoritario, che fosse capitale o dittatura (comunista), allora fu, implicitamente, anche quel movimento politico che portò alla nascita di quei nuovi ideali, che poco dopo spianarono, ideologicamente parlando, la lotta alla criminalità organizzata, a quel potere ugualmente autoritario, parallelo (ma forse meglio organizzato) a quello dello Stato, e in qualche modo – in molti modi – ad esso sottilmente legato.
Quella lotta alla mafia che fece altrettante vittime dei terroristi. Anni di piombo quelli del terrorismo estremista, anni di piombo quelli del terrorismo di stampo mafioso. La storia fluisce continuamente dentro e oltre se stessa, e non bastano le definizioni degli storici che tentano di creare un ordine logico laddove non può esserci che un significativo caos, a separare gli avvenimenti tra loro, a cercare di guardare alla storia come se fosse un insieme di piccole tessere di mosaico, anziché un’unica, grande pennellata tracciata sulla tela con diverse sfumature. Alcuni storici considerano gli anni ’70 come un’occasione mancata: i cambiamenti sociali seguiti al boom industriale e culturale, a sua volta conseguenza della ripresa economica del Dopoguerra, avrebbero potuto dare l’avvio a un processo evolutivo in cui si sarebbero potute sfruttare le nuove energie politiche e culturali per risolvere gli annosi problemi della giovane Repubblica: la questione meridionale e la problematica della criminalità organizzata, per esempio. Invece, furono anni di violenza. Violenza dilagante, attacco ideologico “al cuore dello Stato”, anime allo sbando. Perdita (senza rimpiazzo) dei valori tradizionali. Un processo che, al contrario di quanto si sarebbe sperato, aprì piuttosto la strada a una involuzione socio-politica: la scoperta della P2, la degradante corruzione politica e morale, gli abusi di potere che infine suppurarono nello scandalo di Tangentopoli.
Gli anni di piombo non sono davvero mai finiti. Anzi, a dirla tutta forse sono iniziati molto prima di quanto affermano gli storici: negli oscuri giochi di potere consumatisi all’ombra del lungo, prospero e apparentemente calmo dominio della Democrazia Cristiana, già esistevano in nuce tutti i presupposti che avrebbero condotto alla situazione politica successiva, agli anni di piombo e al terrorismo, agli omicidi di mafia e al sequestro di Aldo Moro, che, dopo più di 30 anni, cela ancora il mistero della sua morte. Già. Perché Aldo Moro non fu liberato? Perché la DC non trattò con le BR, come avrebbe fatto solo due anni dopo, dinanzi al rapimento di Ciro Cirillo, responsabile amministrativo del post-terremoto in Campania, chiedendo l’intercessione addirittura di Don Raffaele Cutolo? A muovere la mano dei killer c’è stato sempre lo stesso, invisibile potere. Brigatisti e mafiosi, P2, Andreotti e Cossiga. Una sola grande famiglia. Chi nelle vesti di burattino, chi di burattinaio, sono dettagli che non si conoscono con precisione, né si conosceranno probabilmente; ma, oggi come ieri, Moro e Impastato, sono vittime dello stesso potere, quel potere autoritario e semi-dittatoriale contro cui lottavano i sessantottini. E contro cui, in maniere diverse, lottavano anche Moro e Impastato, entrambi uccisi per essere messi a tacere. Impastato, perché denunciava gli illeciti mafiosi, Moro perché aveva palesato l’intenzione di aprire le porte del Governo al PCI, mossa che, in piena guerra fredda, era vista di cattivo occhio sia dall’ex URSS, che tutelava la purezza del proprio regime, sia dagli USA, che paventavano l’acquisizione di un certo peso politico da parte dei comunisti. Che sia stato lo Stato, o la mafia, suo riflesso illecito e armato, ad averli uccisi, non fa differenza. Perché tra Stato e mafia, la differenza era (ed è tuttora) poca. Tant’è vero che chi fu coinvolto all’epoca nel caso Moro era molto più vicino a Cosa Nostra di quanto si creda. Lo Stato ha anch’esso le sue armi per agire, usa altre braccia, molto spesso si nasconde dietro ideologie faziose. Come quelle che impedirono al Governo di Andreotti di aprire le trattative con le BR per il rilascio di Moro, imponendo la linea della fermezza contro quei comunisti terroristi, inconsapevoli attori di un dramma ben più grande di loro. Moro e Impastato avrebbero potuto essere, insieme agli altri che in quel periodo si batterono per lo sviluppo e la crescita culturale del nostro paese, gli uomini della svolta; invece restano vittime, sacrificali e innocenti, di un potere oscuro e misterioso, che continua a tenerci al giogo ancora oggi.
Giuliana Gugliotti
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