Il 1973 è un anno terribile per la città di Napoli, l’anno in cui la popolazione fu sconvolta da una tragica epidemia di colera ed infestata dalla paura. La città si ritrovò assolutamente impreparata all’emergenza e, tra estenuanti code per i vaccini e precauzioni varie – a trent’anni di distanza la puzza della creolina e dei disinfettanti brucia ancora nel naso e tra i ricordi di chi ha vissuto quel periodo – 911 furono i ricoveri, 127 i casi accertati, 10mila i portatori sani. Anche se, ad oggi, è ancora impossibile ricavare un numero certo dei decessi, le vittime ci furono così come il panico, l’isolamento, le discriminazioni, per non parlare della caccia al vibrione, che si trasformò in una vera e propria “caccia alle streghe”, scatenatasi tra le equipe mediche e i mass media.
Alfonso Zarone, medico legale incaricato dal tribunale di effettuare le analisi per rintracciare il vibrione responsabile dell’epidemia, dichiarò a tale proposito che “all’epoca si accettava una concentrazione di 4 colibatteri per grammo di cozza. Io dovetti constatare che nelle cozze napoletane i colibatteri per grammo di cozza erano 400mila. La cosa paradossale era che le cozze erano un concentrato di colibatteri, a causa dell’inquinamento del mare, da impedire di sopravvivere allo stesso vibrione del colera. Insomma, il colera c’era, ma il famigerato vibrione non fu mai trovato”.
Fu, forse, proprio a causa di questa mancanza di informazioni che il dito di giornalisti, di certo poco imparziali e offuscati dai pregiudizi, iniziò a rivolgersi contro i cittadini di Napoli, definiti (ieri come oggi) sporchi, incivili, incapaci di mantenere pulita e vivibile la propria città.
La sporcizia e la spazzatura che – anche allora – rendevano Napoli una città sull’orlo del baratro, furono considerate le principali cause della diffusione del colera: insomma, oltre ad esserne le vittime, i napoletani diventarono la causa prima dello scoppio dell’epidemia, nonostante – come fu successivamente accertato – le condizioni igienico-sanitarie della città fossero soltanto in parte responsabili della diffusione e del contagio. Il golfo inquinato, le cozze infette, l’incuria diffusa in tutta la città furono i maggiori imputati all’epoca, tuttavia il vibrione della malattia, lungi dall’essere nostrano, giunse davvero da molto lontano, in una partita di cozze, si, ma proveniente dalla Tunisia.
Oltre al danno la beffa, verrebbe da dire. Molta della disinformazione che, in quel periodo, fu operata dai giornalisti italiani ha contribuito, infatti, ad alimentare la nascita di stereotipi, oggi considerati aspetti caratterizzanti il popolo napoletano tutto. Non c’è da stupirsi se una delle canzoni da stadio anti-Napoli più popolari sia proprio “Napoli colera” che, pur riferendosi a quella che fu una vera e propria tragedia, dà l’occasione di denigrare l’intera città; o ancora se, nel lungo corso dell’attuale emergenza rifiuti, da più parti d’Italia, tra l’indifferenza e le invettive politiche, siano state rispolverate, trent’anni dopo, proprio le solite, vecchie storie sui napoletani “brutti, sporchi e cattivi”.
Sara Di Somma
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