La città dei rifiuti sparsi sulle strade. La città delle discariche chiuse e riaperte, la città delle forze dell’ordine – e dell’ordine – fantasma. La città in cui a bruciare non sono gli inceneritori promessi, ma i roghi tossici a cielo aperto, che sprizzano scintille e fumo nero sulle corsie delle autostrade. La città della Camorra. La città degli scippi ai turisti e del turismo della droga. La città dei disoccupati, senza lavoro e senza parcheggi. Napoli è sulla bocca di tutti. Una Napoli invivibile, una Napoli sporca, una Napoli pericolosa. Un argomento all’ordine del giorno, un capro espiatorio su cui convogliare gli scontenti di un’opinione pubblica italiana che ama lamentarsi di tutto quello che nel Bel Paese proprio non va. E per la gente che a Napoli continua a vivere, oltre che a sopravvivere, sognando la fuga in un domani libero da paure e angosce, c’è solo da provare compassione.
Ultimamente mi capita spesso di pensare a quelle vecchie stampe in bianco e nero, di cui gli anziani amatori, vissuti in una Napoli d’altri tempi, conservano ancora delle copie, nostalgicamente incorniciate: la Marina Vecchia, via Caracciolo, piazza Sannazzaro. La Napoli borghese degli anni Cinquanta, la Napoli che voleva risorgere dalla miseria della guerra, la Napoli di Eduardo e Totò: a guardarle sembra quasi di vedere agitarsi sullo sfondo lo spettro pallido di un ottimistico futuro, agognato ma mai realizzatosi. Le foto della Napoli moderna che oggi fanno il giro del mondo, invece, le conosciamo tutti. Meglio non spenderci una parola di più. La domanda che echeggia sulla bocca di tutti è sempre la stessa, affiora incontenibile alle labbra, come un mantra che, a furia di ripeterlo, perde ogni significato: com’è possibile che Napoli, la città greca, la città romana, la grande capitale del Meridione si sia ridotta in queste condizioni? Le risposte sono molteplici, ma hanno un elemento comune: chiamano sempre in causa voleri e poteri altri, generici nemici senza volto, ignoti alla conoscenza dei più. E allora il carnefice della città si chiama Stato, Camorra, o collusione tra i due; si chiama Governo centrale e Governo locale. Si chiama industrie del Nord che vengono a sversare i loro rifiuti tossici al Sud. Si chiama disoccupazione e evasione fiscale. A volte si chiama anche Unità d’Italia. Secoli e secoli di plurime dominazioni straniere hanno insegnato anche, forse specialmente ai napoletani, a trovare un generico “qualcuno”, un nemico sempre estraneo da incolpare per le loro disgrazie; salvo poi rimpiangere i vecchi dominatori ogni qualvolta vengano scalzati dai nuovi.
Eppure Napoli non è solo munnezza: c’è una Napoli città d’arte, una Napoli cinematografica, una Napoli capitale della cultura nel 2013; c’è la Napoli delle università e dei monumenti, la Napoli delle piccole associazioni territoriali che lottano ogni giorno contro l’imbarbarimento e il degrado sociale passando sotto silenzio, coartate da una macchina mediatica che ha imparato che sangue e squallore pagano di più e meglio; c’è una Napoli che lotta per emergere dalla cortina di rifiuti sotto cui è stata relegata. Una Napoli che vuole emanciparsi, crescere, diventare degna d’Europa. Ma allora perché Napoli non riesce a risorgere?
Provo a rispondere con un aneddoto. Il tardo pomeriggio dell’otto Dicembre mi trovavo alla fermata dell’autobus a piazza Nazionale. Era già scuro da un pezzo mentre qualche passante si attardava nelle ultime compere. La piazza mi sembrava insolitamente bella alla luce soffusa dei lampioni: quando l’oscurità cala il suo pietoso velo sulle strade sporche e piene di buche, Napoli sembra risplendere di un nuovo bagliore. Alcuni ragazzi cinesi impegnavano il pomeriggio festivo giocando a pallacanestro sulla piattaforma appositamente adibita al centro dell’isola pedonale; due giovani sui rollerblade passarono sfrecciando sull’asfalto levigato delle mattonelle dei marciapiedi. Il traffico era lento e scorrevole come mai, mentre una famigliola passeggiava tranquilla mangiando un gelato e una vecchina seduta sotto la pensilina della fermata dava a parlare amabilmente a una giovanissima nonna sudamericana con nipoti al seguito. Nonostante qualche residuo di spazzatura accanto ai cassonetti, nonostante le giostre comunali imbrattate di scritte e le auto che transitavano nella corsia riservata a un pullman che tardava ad arrivare, in quei pochi istanti non mi fu difficile immaginare Napoli come una qualunque altra città europea. Imperfetta e scomposta come sempre, ma accogliente e genuina, senza barriere, architettoniche e sociali, una città multiculturale e moderna. Per qualche istante mi cullai in quella felice illusione. Poi, finalmente, arrivò l’autobus. Stracolmo. Fortunatamente, non era la mia linea. Quando l’autista arrestò la marcia e aprì le porte, un paio di ragazzini sui dieci anni, schiacciati tra la cabina di guida e la porta a vetri, iniziarono ad agitare freneticamente le braccia per fare segno a quelli a terra di non entrare. “Cà schiattamm’, nun saglite, nun ce trasimm’”. Quasi nessuno riuscì in effetti a salire sul mezzo. La vecchia che prima aveva parlato con la donna sudamericana non si alzò nemmeno per tentare di entrare: altrove non avrebbe avuto problemi a prendere l’autobus, anzi, qualcuno le avrebbe volentieri ceduto un posto a sedere. Ma nella logica selvaggia di una giungla in cui le risorse scarseggiano, ognuno conta per sé, e chi non può sgomitare per ottenere ciò che gli spetta di diritto è destinato a soccombere. La vecchina, certamente consapevole di tutto ciò a un livello più elementare, si limitò semplicemente a dire che avrebbe aspettato l’A37, che faceva lo stesso percorso. Quando uno dei due bambinetti la canzonò, con tutto lo sdegno e la presunzione di cui può essere capace un bambino di dieci anni: “L’A37 già è passato, e mo’ t’appienn’ a ‘o tram!”. Poi le porte si richiusero, e l’autobus continuò la sua corsa. La mia illusione si era infranta. All’improvviso mi ricordai perché Napoli non fa, non potrà mai fare parte d’Europa.
Napoli è una donna isterica, che, minimizzandoli, finge di non vedere i suoi sintomi. Napoli è una donna distrutta, che si lamenta di essere stata stuprata quando in realtà era consenziente. A Napoli si continua a pensare che i problemi vengano da fuori, da qualche imprecisato luogo di potere in cui viene decisa la sua sorte: che sia il politico o il camorrista di turno, o l’antico dominatore spagnolo o l’imprenditore Settentrionale che viene a inquinare le nostre floride terre non fa differenza. Chiunque può vestire i panni di spietato carnefice, mentre Napoli recita la parte della vittima. E in questo circolo di vittimismo, Napoli si culla nella sua belle indifférence.
Ma il nemico non è fuori. Il nemico è dentro. Si annida in casa nostra, nella mentalità di un popolo, di una città che si sente impotente, rassegnata a soccombere a se stessa mentre accusa qualcun altro tanto per far qualcosa. Il nemico si chiama Ignoranza. Il nemico si chiama Omertà. Il nemico si chiama Rassegnazione. Il nemico è un bambino che risponde maleducatamente a una vecchia; il nemico è il vigile urbano che preferisce controllare i documenti di una donna, sola al volante, piuttosto che fermare un’intera famiglia strizzata su un motorino e senza casco. Il nemico è l’indifferenza sulle facce delle madri che accompagnano i figli a scuola facendo lo slalom tra le zoccole e i sacchetti dell’immondizia. Il nemico è la noncuranza del passante che assiste a una molestia e finge di non vedere. Nessun Risorgimento attende Napoli una volta sconfitti i cattivi, perché i cattivi siamo noi. Einstein diceva: “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno a guardare”. A Napoli quest’affermazione è più che mai un’inconfutabile, triste verità.
Giuliana Gugliotti
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