Lo scorso giugno i cittadini italiani sono stati chiamati a decidere, tramite referendum, su alcune questioni di grande importanza: la privatizzazione dell’acqua, il nucleare e il legittimo impedimento. La vittoria dei 4 “si” è ormai storia di ieri ma, mentre in molte città italiane gli enti locali restano silenti lasciando gli speranzosi cittadini in attesa di nuovi provvedimenti in linea con quanto espresso dalla volontà popolare, Napoli irrompe sulla scena dando un primo, concreto segnale di cambiamento.
È, infatti, di pochi giorni fa il comunicato dell’amministrazione comunale napoletana con cui si informa la cittadinanza che l’Arin S.p.A. (Azienda Risorse Idriche Napoli) diventerà un’Azienda Speciale ed assumerà il nome “A.B.C.” che sta per Acqua Bene Comune. A seguito di un atto deliberativo firmato dagli assessori Alberto Lucarelli e Riccardo Realfonzo, la società idrica napoletana viene sottratta al processo di privatizzazione e si trasforma in una società di diritto pubblico, un soggetto giuridico collettivo che mira a tutelare una risorsa primaria, appartenente alla comunità.
L’inversione di rotta operata a Napoli appare evidente anche nella sigla nominale della nuova azienda, che esplicita la ripubblicizzazione dell’acqua ed il concetto su cui essa si fonda: l’acqua come bene comune, da garantire a tutti, tutelando i consumatori da eventuali rincari e carenze nella gestione del servizio.
“La nuova società sarà gestita con criteri di trasparenza e di piena garanzia della salute pubblica, con il controllo dei costi” ha dichiarato il sindaco De Magistris, aggiungendo che si tratta di “Un’operazione, quella napoletana, unica nel panorama nazionale”.
Del resto anche il governo nazionale sembra voler aggirare l’ostacolo rappresentato dal plebiscito del referendum del 12-13 giugno scorso, infatti nella manovra economica “di ferragosto” spiccano alcuni articoli che minano la scelta dei cittadini: con la dichiarazione di voler “lasciare fuori l’acqua”, il governo ha scelto di prediligere la strada della privatizzazione per tutti gli altri servizi pubblici locali (trasporti, asili, rifiuti), al punto da scatenare la reazione di chi per il referendum ha lottato fino in fondo.
Il prof. Mattei, docente presso l’Università di Torino, tra i promotori dei quesiti referendari sull’acqua, ha infatti affermato che “il decreto Ronchi prevedeva l’obbligo di privatizzare una quota di servizi entro una certa data. Ora il governo fa una mossa in due tempi: sceglie di tener fuori l’acqua ma obbliga a privatizzare entro metà marzo gli altri servizi”. Senza contare che la manovra prevede forti incentivi economici per i comuni che sceglieranno di vendere quote dei propri servizi e che, in tempo di tagli agli enti locali, si sa, la tentazione potrebbe essere forte, pur essendo questo provvedimento in netto contrasto con quanto espresso dalla Corte Costituzionale che, nell’accettare il primo quesito referendario sull’acqua, ne aveva specificato l’estensibilità a tutti i servizi pubblici locali.
Dunque, con il referendum di giugno, non abbiamo votato soltanto per salvaguardare la “nostra” acqua, ma tutti i servizi garantiti dagli enti locali alla cittadinanza: l’abrogazione dei dodici commi dell’articolo 23 bis della Legge n. 133/2008 – ricordiamolo – era relativa alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica e non soltanto a quella dei servizi idrici. In Italia, però, sembra sempre possibile una scappatoia e, è il caso di dirlo, c’è chi cerca di darla a bere ai cittadini, proponendo norme che vanno contro il volere della democrazia partecipata.
A Napoli, invece, (per una volta) il cambiamento sembra seguire la strada giusta: lungi dall’accettare la privatizzazione, la giunta comunale sceglie di dare all’A.B.C. uno statuto del tutto innovativo in cui risaltano la rappresentanza dei lavoratori e degli utenti\ambientalisti al Consiglio di Amministrazione; il fabbisogno minimo gratuito; il bilancio ed il piano pluriennale partecipato; la pervasività di criteri amministrativi basati su standards ecologici e sociali; il ruolo di coordinamento a cura dell’Assessorato ai beni comuni del rapporto fra Acqua Bene Comune Napoli e la cittadinanza; l’impegno sull’alfabetizzazione ecologica della popolazione.
Sembra, insomma, garantito che l’azienda sarà gestita con criteri di trasparenza, tutela della salute pubblica e controllo dei costi e, per rassicurare ulteriormente gli increduli napoletani, il comune ha anche sottolineato che non saranno riproposti “vecchi carrozzoni” e che il nuovo Consiglio di Amministrazione vedrà l’ingresso di figure professionali differenti da quelle della precedente gestione. Oltre ad essere costituito da tre figure di carattere tecnico, giuridico e manageriale cui si affiancheranno due rappresentanti della cittadinanza nominati dal sindaco e individuati tra le associazioni ambientaliste, il consiglio sarà, poi, supervisionato da un organo di controllo in cui saranno rappresentati i lavoratori dell’azienda, gli ambientalisti e i consumatori.
Sara Di Somma
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