A riguardare quelle immagini che lo resero famoso in tutto il mondo, Neil Armstrong sembra piuttosto un pupazzo, avvoltolato com’è nella tuta spaziale, il volto nascosto dentro un casco rotondo e gigante, mentre muove incerto i primi passi sulla Luna, in mano la bandiera a stelle e strisce che segnerà una delle svolte epocali nella storia dell’umanità. Era il 21 luglio 1969, e Neil Armstrong era il primo essere umano a camminare sulla superficie di un altro pianeta.
Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità.
Chissà da dove gli venne fuori quella frase, se dall’orgoglio (inevitabile) di essere pioniere dello spazio, o dalla commozione (anche quella inevitabile) per aver varcato indenne la soglia dell’universo, dopo una non facile manovra di atterraggio. La competizione coi russi, la Guerra Fredda. Una missione necessaria per non farsi sorpassare dai sovietici. Ma questi sentimenti erano estranei a Neil Armstrong, che in fin dei conti era un uomo semplice, coraggioso sì, ma eroe in sordina, immune alla gloria personale e più interessato al trionfo dell’umanità e del lavoro di squadra. Come ogni scout che si rispetti.
Ce le ricordiamo tutti, quelle parole. Il perché è semplice. Segnano l’inizio di un’epoca, o piuttosto la realizzazione di un sogno che si avvera dopo millenni di storia. Così come la morte di Neil Armstrong, a poche settimane di distanza dall’atterraggio della sonda Curiosity su Marte, nuova frontiera dell’esplorazione umana dello spazio, segna la fine di quella stessa epoca. Di ottimismo, fiducia nel futuro e abnegazione ai valori della patria. Un’epoca semplice, popolata da eroi del quotidiano, eroi “quieti”, come scrive Gianni Riotta su La Stampa, nel suo elogio funebre di Neil Armstrong. Uomini che hanno saputo farsi amare dal mondo intero con umiltà e dedizione.
Neil Armstrong era davvero uno di questi uomini. Nato in Ohio da genitori di origine scozzesi e tedesche, si arruolò come pilota nella marina militare combattendo nella guerra di Corea, da dove tornò in patria con ben 72 missioni all’attivo, per iscriversi poi alla facoltà di ingegneria aereonautica della Purdue University, dove si laureò nel 1955.
La passione per il volo ce l’aveva da bambino, quando in una fiera di paese montò su un piccolo velivolo che sorvolava la campagna. Neil Armstrong aveva sei anni allora, e un destino già scritto. Nel 1962 fu selezionato come astronauta. Comandò le missioni Gemini 8 e Apollo 8, e quando, pochi anni dopo, si trattò di indicare tre uomini per attuare la missione di allunaggio, ultimo step previsto dal’ambizioso programma spaziale lanciato dal defunto presidente Kennedy, la scelta ricadde proprio su Armstrong, pilota ma civile, che si trovò al comando dell’Apollo 11, “fiondato” nello spazio alla conquista del satellite terrestre insieme a Michael Collins e Buzz Aldrin.
Quello che accadde dopo è storia. I suoi passi sulla Luna, trasmessi in mondovisione, emozionarono 600 milioni di persone sparse in tutto il mondo. Il 13 agosto 1969 Richard Nixon gli assegnò la medaglia presidenziale della libertà, più alta onorificenza civile americana.
Dopodiché Neil Armstrong sparì dalla circolazione. Lasciò la Nasa e si ritirò a vita privata, preferendo l’insegnamento – fu professore di ingegneria all’università di Cincinnati – ai riflettori puntati su un successo che non considerava solo suo, ma frutto del lavoro congiunto di centinaia di tecnici. Un successo che apriva gli occhi del mondo alle “illimitate opportunità umane”.
La cosa più importante della missione Apollo fu dimostrare che l’umanità non è incatenata per sempre a un solo pianeta, e che le nostre visioni possono superare quel confine, e che le nostre opportunità sono illimitate.
Neil Armstrong incarna il sogno americano ormai dimenticato, quello di un paese dalle mille opportunità, accogliente come una madre e severo come un padre, che a tutti i suoi figli offre la possibilità di trasformarsi in eroi, dedicandosi alla vita con impegno, costanza, rispetto e amore per l’uomo.
Giuliana Gugliotti
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