Londra 2012. Le Olimpiadi sono alle porte ed è stata confermata la notizia della mancata presenza delle atlete saudite. A stabilirlo è il Comitato Olimpico di Riyad che però non ha letteralmente vietato la partecipazione. Da come si legge: “Per ora non sponsorizzeremo la partecipazione di alcuna donna alle Olimpiadi o ad altri campionati internazionali. […] In caso contrario le nostre autorità si assicureranno che la partecipazione non violi la sharia, la legge islamica”. Questa la dichiarazione del principe Nawaf bin Faisal nel corso di una conferenza stampa a Jedda. Parole, peraltro, che erano state già pronunciate lo scorso novembre sempre in merito alla partecipazione delle donne alle gare internazionali.
Si parla di problemi da risolvere. Problemi insormontabili a quanto risulta. L’abbigliamento delle ginnaste è stato forse il principale, insieme all’immoralità che si può stimolare con l’attività fisica. Eppure alcuni passi avanti erano stati fatti. Qatar e Brunei hanno, ad esempio, dato il lasciapassare alle proprie atlete sorvolando su alcuni punti limitanti. Ma l’Arabia Saudita no. Solo Dalma Malhas, campionessa equestre di salto a ostacoli, parteciperà per rappresentare l’Arabia Saudita. L’eccezione per lei è stata fatta perché già vincitrice di una medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Singapore.
In questa sede non si vuole sindacare la sharia, la legge islamica, che persiste da secoli. Qui in gioco c’è la libertà della donna nel poter vivere. Semplicemente. Si denunciano le privazioni che le donne devono subire. Le umiliazioni a vantaggio dell’uomo. L’impossibilità di gestire il proprio corpo perché c’è il padre o il marito che detta legge. Nell’ambito dello sport, addirittura non possono praticare l’educazione fisica nelle scuole femminili. Perché? Perché potrebbe spingerle verso “percorsi di immoralità”.
Il dossier di Cristoph Wilcke evidenzia tutte queste problematiche. Steps of the Devil è il frutto di ricerche e meditazioni sulla condizione delle donne islamiche. Come si legge nel dossier “Per le autorità si tratta semplicemente di rispettare la religione, ma in realtà non c’è alcun dettame religioso incompatibile con la pratica sportiva femminile. Ma il divieto c’è, e probabilmente nasce da una visione molto conservatrice dell’Islam saudita che, oltre a imporre di coprire alcune parti del corpo di una donna, vieta a entrambi i sessi di confondersi negli stessi ambienti”.
Magari fosse l’unico contesto in cui la discriminazione per motivi religiosi si fa sentire. La donna è priva di libertà, se non concessa da un uomo. L’istruzione – dopo anni di lotte, senza risparmiare vittime – è l’unico campo in cui i sessi sono parificati. Positività che non si proietta in modo direttamente proporzionale nel mondo del lavoro che predilige l’essere maschile.
Roberta Santoro
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