di Matteo G. Brega
Non è facile protestare contro la riforma dell’università. Naturalmente, se lo si vuole fare seriamente. Perché se la protesta consiste nel fare affermazioni apologetiche del tipo «l’università non si tocca», «l’istruzione è un diritto», «vogliamo la meritocrazia», «sono i ricercatori che si devono occupare di ricerca», o se una protesta per una riforma, che a parole è invocata da tutti, viene usata per una polemica squisitamente politica, almeno non si dica che l’oggetto è l’università. Le sommosse di piazza o le manifestazioni degli studenti delle scuole superiori sono un corredo usuale e non è certo da loro che ci si aspettano riflessioni.
Ma la discussione su questa riforma è diversa dalle altre, l’approccio ha degli elementi di novità che descrivono l’Italia in maniera inesorabile.
Per prima cosa – e chi sa come stanno le cose lo sa benissimo – la riforma è stata fatta ascoltando gli spunti che provenivano dal mondo universitario, è tutt’altro che una riforma calata dall’alto; la Crui (la conferenza dei rettori) l’appoggia e ciò non significa che l’appoggiano «i baroni» ma che anche i rettori hanno colto l’esigenza ineludibile di un intervento. Le critiche, a ben vedere, si concentrano sui tagli, ma essi non fanno parte della riforma. I tagli sono un aspetto legato all’approccio che il Tesoro ha avuto nei confronti della crisi internazionale. Si possono quindi criticare i tagli ma non si possono confondere con la riforma. È un errore banale, da non addetti ai lavori, che nel passato non avremmo sentito fare da membri di un mondo specializzato ed «esoterico» come quello dell’università, dire che «la riforma taglia le risorse» quando si sa benissimo che le risorse sono una variabile mentre la normativa un assetto stabile. E che le prime variano con la congiuntura e le finanziarie mentre la seconda è uno strumento.Non è sostenibile preferire i vecchi assegni di ricerca ai nuovi percorsi di tenure track, non ci sono tanti argomenti concreti per preferire i concorsi locali all’abilitazione nazionale, non si può onestamente contestare il principio della stabilità dei bilanci e del criterio della produzione scientifica per l’attribuzione dei fondi ai vecchi bandi «a pioggia». Non è così facile pensare di difendere le vecchie commissioni che della trasparenza e della meritocrazia non erano certo un presidio. Non è semplice sostenere che la riforma non sia un passo avanti – certo si può discutere dell’ampiezza di tale passo – su molti elementi, così come non è pensabile dire che la riforma sia la panacea che renderà il sistema universitario italiano, da un giorno all’altro, il migliore al mondo.
Vi è un aspetto, francamente desolante, che – a voler pensare male – ridurrebbe tutta la protesta ad un solo argomento: la rivendicazione dei vecchi ricercatori di ottenere, più o meno ope legis, lo scatto di carriera ad associato. Anche se pare un ragionamento piccino, nei corridoi delle università si dice questo, lo sapranno anche i ragazzi che hanno fatto irruzione al Senato?
Nel gioco delle parti che prevede che le associazioni politicizzate rivestano un ruolo politico ci sta tutto, ci stanno le manifestazioni, ci stanno le sdegnate prese di posizione. Ma l’amaro sapore che rimane in bocca è che dal mondo che esprime le nostre eccellenze culturali non si leva un’articolata, stringente, acuta, opposizione contro chi starebbe «smantellando un diritto». Si sentono posizioni scoordinate, non chiare, pressapochiste, in una sola parola «stanche». Si sente la voce di un mondo non del tutto convinto di quello che dice, che protesta sul sentito dire e all’interno del quale l’afa del «distinguo» è sempre pronta a diffondersi. Gli avversari della Gelmini non stanno onorando la propria battaglia perché la combattono maneggiando con approssimazione armi arrugginite e non hanno capito che se gli unici soldi che Tremonti ha trovato sono per questa riforma è perché c’è sostanziale consenso sulla stessa sia dentro che fuori l’università.
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