Era terribilmente a disagio durante la tribuna politica del 1960, quando un giornalista gli chiese i motivi per cui il suo partito avesse candidato un boss mafioso nelle liste siciliane.
Non si sta parlando di Silvio Berlusconi e “Forza Italia”, ma di Aldo Moro e la “Democrazia Cristiana”: il partito dello scudo crociato aveva candidato Giuseppe Genco Russo, riconosciuto super boss mafioso, nel seggio di Mussomeli (Caltanisetta), promuovendolo a consigliere.
L’opinione pubblica italiana si stupisce per la presenza in parlamento di Luigi Cesaro (politico dai risaputi legami con la camorra) e di altri politici indagati per mafia: episodi inquietanti ma riguardanti uomini collusi con la mafia e non dei boss come Giuseppe Genco Russo.
Altrettanto umiliante è individuare la figura del boss e riflettere come un personaggio simile possa aver rappresentato le istituzioni: un uomo rude, grasso, volgare e fiero di esibire le più bieche abitudini contadine (sputare per terra, esibire scarpe sporche, essere sgrammaticati) ma nello stesso tempo egocentrico (al punto di essere ribattezzato “la Lollobrigida” dagli stessi criminali, per un’attitudine a farsi fotografare).
Perché la Democrazia Cristiana incappò in uno scandalo di tale portata?
Innanzitutto la mafia degli anni ‘50/’60 era molto diversa da quella successiva o attuale: lavorava nel campo agricolo e aveva precisi codici di comportamento, mentre la successiva si sposta in campi disonorevoli (prostituzione o spaccio di droga) e manca di ogni tipo di etica elementare.
Non esisteva una gerarchia ma Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo erano gli esponenti più carismatici: dopo un iniziale periodo come proprietari terrieri, essi sfruttarono la “riforma agraria”, diventando furbi intermediari tra l’ex latifondista e il mezzadro (spesso giovando solo al primo).
Per anni l’organizzazione mafiosa era vista come innocua, addirittura una sorte di complice per lo Stato italiano (tropo lontano dal meridione): quest’attitudine era un retaggio dall’uso che gli Stati Uniti fecero della criminalità organizzata, durante lo sbarco in Sicilia.
Difatti alcune voci dicono che i boss mafiosi (Genco Russo e il suo predecessore Calogero Vizzini) fossero in contatto con Lucky Luciano per organizzare lo sbarco americano in terra siciliana: questa vicenda è controversa mentre è sicuro che gli americani utilizzassero i due boss come “uomini di fiducia di sicure fedi anti fasciste” (evidentemente fraintendendo i motivi delle loro accuse).
Di conseguenza la “Democrazia Cristiana” equivocò la situazione, nominando Genco Russo a consigliere di Mussomeli.
Mai nessuno comprenderà se l’equivoco fosse in realtà voluto: difatti il partito cattolico era indubbiamente informato su i chi fosse il futuro consigliere siciliano, i fatti lo testimoniano.
Genco Russo fu più volte accusato dal regime fascista (ma inizialmente sempre scagionato per mancanza di prove) e infine imprigionato (tre anni di reclusione) nel 1931.
Il boss partecipava con spregiudicatezza e disinvoltura, sia ai convegni della Dc (alla vigilia delle elezioni del 1948, a Villa Igea a Palermo) e sia agli incontri pubblici tra mafiosi nostrani e americani (al “Grand Hotel e des palmes” di Palermo, nel 1957).
Infine nel 1964, il vecchio boss fu arrestato e mandato al confino a Lovere: il processo creò nuovo imbarazzo perché l’imputato chiamò a testimoniare gente molto altolocata (clericali, banchieri, medici, uomini di legge e imprenditori) e soprattutto l’avvocato minacciò di pubblicare i telegrammi inviati da trentasette deputati democristiani, in favore di Genco Russo; Addirittura si scomodò il sottosegretario della Dc, Calogero Volpe.
Genco Russo fu condannato a cinque anni di confino ma morì tranquillamente nel proprio letto, in Sicilia, nel 1976: una degna fine di un boss mafioso, fin troppo amico della classe politica.
Rey Brembilla
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