Ritorna prepotente in questi giorni il caso Sallusti. Era il 26 settembre quando la Corte di Cassazione confermava la pena a 14 mesi emanata dalla Corte d’Appello di Milano per il direttore de “ il Giornale ”, reo di aver dato il proprio beneplacito alla pubblicazione di un articolo apparso sulle pagine del quotidiano da lui diretto. Si gridò alla scandalo, si levarono cori di protesta, voci di biasimo e di condanna, intervennero le più alte cariche dello stato, si mobilitarono i talk show televisivi e divenne un caso. Un caso mediatico montato ad arte, atto a condannare o a graziare un uomo che forse ha sbagliato, un caso politico-giornalistco atto a valutare e soppesare la giusta misura di una condanna, ed anche la sua valenza, nonché la sua adeguatezza e persino la sua contemporaneità.
E’ proprio così, poiché l’interrogativo opprimente della querelle politico/sociale prende le mosse dalla condanna alla galera a cui Sallusti è stato destinato, si: proprio la galera. Sallusti dando avallo alla pubblicazione di quell’articolo sul giornale da lui diretto rischia di andare in carcere, ossia rischia la pena più infamante che ad un uomo possa essere attribuita, quella più infima, più bassa, più degradante; quella che ti priva del patrimonio più grande che ognuno di noi porta con sé: la libertà.
E’ davvero giusto che vada a finire così? E’ plausibile che un paese emancipato come il nostro, consideri ancora ammissibile costringere un uomo alla prigione, solo per aver espresso delle proprie opinioni su una questione? Ed in realtà le cose sono davvero andate così?
In effetti le versioni venute fuori rispetto alla vicenda spesso sono parziali, schierate, menzognere o comunque poco chiare. L’articolo in questione è davvero un articolo belligerante, forse troppo; scritto in maniera lucidamente bieca , atto a colpire qualcuno o qualcosa più che ad informare. Un’infamia più che un’invettiva ben argomentata, una presa di posizione aprioristica più che una costatazione dei fatti. Una forzatura quindi, una forzatura di cui erano facilmente prevedibili le conseguenze, una prevaricazione giornalistica ed umana che non si è voluto rettificare nemmeno in una fase successiva, ovvero quando attraverso dei dispacci d’agenzia si è appurato che le considerazioni espresse dal giornale diretto da Sallusti erano palesemente infondate. Un’ostinazione caparbia quindi, fondata su delle considerazioni sbagliate, mirate a tutelare un articolo effettivamente fuorviante rispetto alla realtà.
Adesso qual è la presunta colpa del Sallusti? Aver sbagliato? Essersi ostinato? Non aver tenuto in considerazione le conseguenze? Il disconoscere le conseguenze stesse? Oppure è completamente innocente? Possiamo cercare di rispondere a questi interrogativi, cercare di dare un senso all’accaduto e a riportarlo ad una giusta dimensione, presentando la vicenda così per come si è evoluta.
Detto ciò è necessario soffermarsi sull’importanza delle parole scritte o dette, “la potenza della parola” avrebbe detto il retore Gorgia qualche tempo addietro, noi parleremo della potenza della parola e dei media e sull’uso a volte improprio che se ne fa, giacché non è ammissibile oggi come ieri offendere o inveire contro qualcosa o qualcuno attraverso l’uso della stampa, poiché tutti indistintamente, addetti ai lavori o meno, siamo consapevoli del rischio a cui ci si espone scrivendo; una persona additata per via mediatica è spesso una persona socialmente condannata, che per riscattarsi da un’accusa abbisognerà di un processo di riabilitazione sociale con cui non sempre ci si riesce a scagionare completamente. Ci piace pensare allora che forse il Sallusti non sapeva, non era pienamente consapevole delle possibili conseguenze che si sarebbero potute determinare all’indomani di un articolo simile. Ma si è innocenti solo per il fatto che non si sa? Il “non sapere”, non è già una colpa? Volendo scomodare la mitologia greca possiamo dire che nemmeno Edipo sapeva, ma resosi conto della situazione, quando capì cos’era accaduto, cieco abbandonò Tebe. Il non sapere di commettere un abuso o un reato non è per la legislazione italiana una giustificazione, tutt’al più può essere un attenuante, un alleggerimento della colpa quindi, non l’espiazione della stessa. Continuando ad ipotizzare, possiamo pensare che egli non sapesse dell’articolo in tutti i suoi dettagli, nel senso che disconosceva i contenuti, non è assolutamente da escludere un’ipotesi simile, è davvero difficile pensare che il direttore di un quotidiano abbia la possibilità materiale di vagliare tutti gli articoli che vengono fuori dalle penne dei propri collaboratori, ed in questo caso non parleremo nemmeno di negligenza o di scarsa professionalità, ma di forza maggiore. E’ anche vero però, che l’articolo in questione non era stato firmato, vale a dire la pubblicazione dello stesso era stata effettuata con uno pseudonimo, cosa che comporta comunque l’attribuzione dell’articolo alla redazione nella persona del direttore, e non al giornalista in prima persona autore dello scritto, di conseguenza, forse in nome della propria tutela, un minimo di attenzione in più da parte del direttore era richiesta. A quanto già detto, è doveroso aggiungere il fatto che qualche giorno dopo l’esplosione del caso mediatico, il giornalista autore dell’articolo e che si assume la responsabilità dello stesso, si scopra essere Renato Farina, deputato della camera in precedenza addirittura sospeso dell’ordine dei giornalisti. Ribadiamo quindi, forse un minimo di attenzione in più era doverosa.
Detto ciò, è giusto andare in galera per una colpa simile? Il bagno penale è davvero una giusta condanna in questo caso? Oppure è una pena eccessivamente severa e inappropriata? Ci piace pensare vi sia una linea sottile tra ciò che giusto e ciò che non lo è, una linea difficilmente delineabile, ma che esiste, che c’è, ed in quanto tale da tenere in assoluta considerazione. Non credo spetti a noi in questa sede dire come effettivamente le cose dovrebbero andare, se il direttore, il giornalista Sallusti, debba andare in carcere oppure no, non ne abbiamo né il potere né la competenza necessaria per farlo, però ci siamo potuti fare un’idea su come realmente siano andate le cose, un’idea non schierata, non politicizzata, che ambisca insomma più possibile all’ambito traguardo dell’oggettività, dell’imparzialità; ognuno di noi potrà sviluppare, elaborare, articolare questi concetti e giungere per proprio conto ad una conclusione. Un giornalista che voglia adempiere al meglio alla sua professione ed al suo dovere, deve mettere il lettore in condizione di potersi fare una propria idea su come le cose siano andate e su come dovrebbero andare, insomma informare più che orientare, rendere un servizio più che un diktat, esporre più che giudicare. Dovremmo farlo tutti, vorremmo riuscirci tutti, ma soprattutto dovremmo provarci tutti. Mi piacerebbe chiudere questo intervento con questa bellissima riflessione a cui tutti noi dovremmo rifarci, il pensiero di una persona evidentemente più illuminata di noi, che riguardo alla scrittura ed alla parola diceva così: «Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un’intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui posso rendermi conto». Italo Calvino docet…
Francesco Lamanna
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