Per inaugurare questo numero 100 avrei voluto discorrere di tutt’altro, avrei voluto, con fierezza, parlare di quanto siamo cresciuti in questi due anni, di quanto da una redazione formata soltanto da me e mio padre siamo cresciuti fino ad oggi riuscendo a portare l’informazione sul web con costanza e devozione ottenendo dei risultati che sono andati ben oltre le nostre previsioni.
Avrei voluto parlare di crescita, proprio in questo momento storico in cui questa parola sembra oramai morta, ma non posso, il mio dovere di giornalista mi “impone” per l’ennesima volta di dover in-formare i nostri lettori, a dar loro uno spunto per far riflettere e cercare di fare giornalismo, quello vero.
John Lennon diceva nella canzone definita la più bella del ventesimo secolo «Imagine there’s no countries, it isnt’ hard to do» (immagina che non esistano divisioni in paesi, non è poi così difficile). Sì, proviamo a immaginare che non esistano paesi, città, confini. Immaginiamo di essere uno: un paese, una razza, una religione; e se ci sforziamo a proiettare questo “mondo dell’uno” nella realtà ci appare tutto più chiaro. Nessuna guerra, nessun odio, nessuno scontro tra individui, nessun padrone e nessuno schiavo. Una visione utopistica direbbero in molti, forse tutti, ma è ciò che ci hanno imposto, ciò che ci fanno credere le nostre istituzioni che ci rendono una sottospecie di automi colmi di falsi ideali e falsi bisogni.
Un discorso troppo complicato, che se apriamo un po’ la mente ci fa paura soltanto ad immaginarlo. E allora torniamo alla realtà.
La realtà ci racconta dell’ennesimo episodio razziale accaduto l’altro giorno su RAI Piemonte. Il giornalista Amandola conversando con un tifoso juventino calabrese, chiede se i napoletani si “riconoscono dalla puzza”. L’episodio ha avuto risalto nazionale, Amandola è stato sospeso immediatamente e tutti i media si sono prodigati per diffondere il loro sgomento davanti all’accaduto.
Il collega ha sbagliato perché quando si fa parte del circuito dell’informazione, bisogna riflettere non una, non due, ma cento volte prima di dire o fare una cosa. Bisogna pensare alle conseguenze, e soprattutto non bisogna istigare all’odio, cosa che, seppur non volendo, Amandola ha fatto.
Ma il problema è stato davvero risolto? Basta la sospensione di un giornalista a risolvere il problema?
Tutta questa concentrazione mediatica, questa ricerca del capro espiatorio mi sa tanto di caccia alle streghe. E’ troppo facile fucilare adesso Amandola e poi riempirsi la bocca tronfi dicendo che “giustizia è stata fatta”, difficile invece è andare ad indagare sulle cause che portano una persona ad essere razzista nei confronti di un’altra persona. E qui potremmo aprire pagine e pagine di storia, fare dell’ottima filosofia, ma tutto ciò servirebbe a ben poco: la realtà è che l’odio tra le persone aiuta i potenti a governarci, a tenerci a bada, a non pensare a quanto assurdo sia il mondo in cui viviamo.
Meglio scannarci con i tifosi avversari piuttosto che pensare ad esempio che oggi come non mai viviamo in un circuito governato dalle banche, in cui i giovani sono destinati ad essere vittime sacrificali di un sistema che li vedrà lavorare (semmai troveranno un lavoro) fino all’ultimo giorno di vita. Meglio fare guerre tra paesi, mentre i potenti stanno lì sulla loro poltrona a giocare ai soldatini con la nostra vita. Meglio costruire ideali capitalistici in cui il più grande schiaccia il più piccolo, in cui vince chi è più prepotente e chi alza più la voce.
Di Amandola non mi preoccupo, lui può stare tranquillo, in fondo si sa com’è l’Italia, passa qualche mese e qualche tv pagherà milioni di euro per averlo tra i propri opinionisti. Ma a noi resterà in bocca sempre lo stesso schifo ed è per questo che il cambiamento deve partire da noi stessi, nella vita di tutti i giorni. Non esistono distinzioni di razze, religioni, stati, fedi calcistiche, esiste solo un grande popolo che è quello degli uomini, ed è a quello che io mi sento di appartenere.
Non voglio certo cambiare il mondo con questo mio articolo, ma cercare di far riflettere i nostri lettori. Magari non cambia nulla, ma provarci è d’obbligo. Oscar Pistorius diceva “perdente non è chi arriva ultimo in una gara, ma chi si siede e sta a guardare“, forse dovremmo essere tutti un po’ meno noi stessi e un po’ più Oscar.
Marco Branca
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