“Ricordatevi… non siamo NOI ad essere razzisti, ma sono LORO ad essere napoletani!”. Questa è la conclusione di una esilarante scenetta del comico Giobbe Covatta che interpreta, insieme ad altri due attori, anch’essi napoletani, una quantomeno surreale tribuna politica. Ed è questa la frase che riecheggia nella mia mente durante la lettura e rilettura del libro “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”. Dico lettura e rilettura perché mi sono divertita talmente tanto che non ho potuto fare a meno di leggerlo nuovamente. Amara Lakhous1 è uno scrittore algerino trasferitosi in Italia, precisamente a Roma nel 1995, e fino al 2001 abiterà proprio in un edificio a Piazza Vittorio, luogo dove ha ambientato il romanzo: “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”. Da come è stato scritto il racconto, si deduce immediatamente che lo scrittore sia vissuto realmente in quel posto, e ci fa immergere profondamente in quelle strade, in quei luoghi tanto da poter percepire in lontananza il vocio delle persone che vi abitano, che vi lavorano, che vi giocano. Idiomi diversi che prepotentemente riempiono le pagine di questo libro. Piazza Vittorio è diventata, negli ultimi anni, uno dei simboli della convivenza multiculturale di Roma e Lakhous sceglie questo luogo come teatro per la messa in scena una detective story, che per vari motivi, dalla location allo stile
Nasce ad Algeri nel 1970 ed appartiene ad una numerosa famiglia berbera. Frequenta la Facoltà di Filosofia di Algeri e, dopo la Laurea, lavora presso una radio locale. Lascia la sua terra ed arriva a Roma nel 1995. E’ qui che pubblica, nel 1999, il suo primo romanzo “Le cimici e il pirata” (Arlem, Roma), un’opera per metà in arabo e per metà in italiano. Lakhous consegue una seconda Laurea, in Antropologia Culturale, presso l’Università La Sapienza. Nel 2003 pubblica in Algeria, e poi in Libano, il romanzo “Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda”, un libro che ha poi scelto di riscrivere in italiano e di pubblicare, nel 2006, con il titolo “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio” (Edizioni E/O) col quale ha vinto il “Premio Flaiano” per la narrativa e il “Premio Racalamare – Leonardo Sciascia” nel 2006, oltre al Premio dei librai algerini nel 2008. “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio” è anche un film diretto da Isotta Toso e prodotto da Imme Film. Nel settembre 2010 Lakhous ha pubblicato, sempre per le Edizioni E/O il romanzo “Divorzio all’islamica a Viale Marconi”.
utilizzato, rimanda inevitabilmente Carlo Emilio Gadda e al suo “Quer brutto pasticciaccio de’ Via Merulana”. Infatti sin dalle prime pagine del romanzo emerge fortemente come questo sia un testo polifonico, nel quale vengono rispettati gli idiomi dei protagonisti di questa bizzarra vicenda, inizialmente apparentemente “light”, ma a mano a mano che le pagine velocemente scorrono, il plot si fa intrigato, duro e a volte amaro. Questo libro piccolo, quasi un “romanzo da spiaggia”, ci obbliga a rimettere in discussione termini che abitualmente usiamo non più. Già nel titolo possiamo provare a fare questo esercizio: “scontro” o “incontro”? “civiltà” o “inciviltà”? Scontro/incontro, tra civiltà araba e occidentale, tra religioni diverse, tra culture radicalmente differenti, che avviene in un palazzo del famoso quartiere vicino Piazza Vittorio.
Nel titolo un solo termine sono si presta a interrogativo di alcun genere e appare scritto senza ambiguità: l’ascensore. Una scatola di metallo, simbolo della modernità, degli agi, che trasporta persone e non solo, da un piano all’altro, risparmiandoci la fatica antica delle scale. E proprio questo spazio limitato, dai confini netti, diviene uno spazio metaforico, di ascese e discese vitali, di equivoci e dislivelli sociali, spazio temuto da chi ne ha paura e adorato da chi ne approfitta, profanato da chi invidia e rifiuta, rispettato e difeso da chi non ha mai smesso di essere snob. E proprio Amedeo, il protagonista claustrofobico, è l’unico che si tiene fuori dalle gabbie sociali, l’unico personaggio libero vincoli sociali e da pregiudizi, che però si rivela il custode di un mostruoso segreto interiore, contro il quale lottare ogni giorno. Gli ingredienti messi insieme magistralmente in questo romanzo, sono dei più variegati: un palazzo con i suoi inquilini provenienti da più Paesi (troviamo algerini, italiani, del nord e del sud, peruviani, “romani de Roma”, svedesi) l’omicidio di uno di essi le diatribe quotidiane per l’utilizzo dell’ascensore i pregiudizi reciproci I fili delle trame che si intrecciano nella storia sono nelle mani Amedeo, che solo alla fine del libro si scopre essere Ahmed Salmi. Lakhous fa una scelta ambiziosa, che è quella di rinunciare ad una voce narrativa unica e continua, e prediligere uno stile: ogni personaggio ha diritto alla sua voce, la sua testimonianza si fa vera perché è sentita. Infatti Amedeo, scrivendo su un diario, ci racconta del suo rapporto con i singoli condomini: ce li fa conoscere profondamente, uno ad uno, mettendo in evidenza, con discrezione, i loro difetti più evidenti. A loro volta, tramite il racconto, i condomini forniscono, attraverso la propria voce, una verità sull’innocenza del presunto autore dell’omicidio, ma più in generale sulle relazioni che intercorrono con il microcosmo nel quale vivono.
Le confessioni iniziano quando accade un evento che sconvolge la quiete apparente del palazzo: l’omicidio di Lorenzo Manfredini, detto “Il Gladiatore”, personaggio xenofobo e violento nei confronti del quale tutti i condomini nutrono disprezzo, ognuno per un motivo differente.
Il primo e unico indiziato di questa morte è Amedeo: alcuni testimoni oculari lo hanno visto litigare con la vittima il giorno precedente l’omicidio, e da quel giorno, casualmente, è sparito (si scoprirà alla fine che purtroppo è stato investito ed è finito in ospedale). Ed ecco che improvvisamente le finestre e le porte di questi appartamenti si spalancano, lasciando uscire fuori le voci degli inquilini che vi abitano.
Sono tutti racconti mimetici, nei quali i personaggi si raccontano liberamente senza condizionamenti, punti di vista differenti, un ottimo esempio di focalizzazione interna multipla che fornisce al lettore sempre più notizie che rendono la storia davvero affascinante. Il romanzo inizia a carrellare sui vari personaggi che sfilano variopinti nelle pagine dl libro, Una cerchia di persone italiane e straniere (che per una bizzarra associazione di idee mi fa venire in mente il film “Le fate ignoranti” di Ferzan Özpetek) fanno da cornice al personaggio principale, formulando ipotesi e avanzando accuse, sospettosi l’uno nei confronti dell’altro. Tutte le riflessioni di Amedeo/Ahmed sono custodite nel suo diario articolato in una serie di capitoli numerati dal titolo “ululato” che arricchiscono di dettagli le testimonianze dei personaggi dal punto di vista dell’Amedeo-narratore. Attraverso analessi completive omodiegetiche (i capitoli degli “ululati”) veniamo aiutati nel compito di comprendere l’ingarbugliata storia descritta nel romanzo, dando un ulteriore significato al carattere di tutti gli attori che partecipano all’intreccio. Mi sono resa conto, verso la fine del romanzo, che poco mi importava di scoprire chi avesse ucciso il Gladiatore, ero certa che Amedeo non c’entrasse nulla in questa storia, e tantomeno mi ha interessato scoprire che la vera assassina era la signora Elisabetta: a questo punto non aveva alcuna importanza. Quel che mi ha colpito di più, invece, è lo scontro/incontro culturale, è la nostra incapacità di immedesimarci nell’altro, di chiuderci alle richieste di aiuto, di essere talmente prevenuti fino a fraintendere gesti e sorrisi. Questo romanzo mi ha offerto interessanti spunti di riflessione, soprattutto sull’incapacità che noi tutti, quasi sempre adulti, abbiamo nel comunicare con le multietnie che popolano il nostro paese, le nostre città, i nostri quartieri. Ma un barlume di speranza si affaccia nel mio cuore, quando penso alla classe 1°, multietnica, che frequenta mio figlio, il terzo: tra loro non ci sono “stranieri”, non vi è dis-integrazione, raccontano dei loro paesi di origine, lontani dalla nostra realtà come se ci raccontassero di una gita fuori porta: fanno della diversità una fonte di ricchezza. Facciamo in modo che le porte dell’ascensore si aprano: usciamo in strada, incrociamo e incontriamo africani, cinesi e russi.
Facciamo in modo che ci venga voglia di mischiarci! Evitiamo lo scontro, facilitiamo l’incontro…
PATRIZIA DIOMAIUTO
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