“Quando la gente cerca di trovare significati simbolici in ciò che dipingo, cerca qualcosa di sicuro su cui aggrapparsi per difendersi dal vuoto”.
La verità è che non esiste alcun tipo di simbolismo nell’opera di René Magritte, pittore belga del primo Novecento, perla rara e artista concettualmente divergente all’interno della corrente pittorica surrealista. Il simbolo non esiste non perché assente – le tele di Magritte sono un continuo richiamo simbolico-metaforico a significati altri – ma piuttosto, potremmo dire, non esiste nella sua accezione modernamente classica, quella psicoanalitica freudiana, che lo vuole come significante manifesto di un processo interiore. Perché nella pittura di Magritte nulla è lasciato al caso, né viene fuori da un rigurgito inconscio dell’artista che, spogliatosi delle proprie inibizioni coscienti, vomita liberamente sulla tela tutto il suo Es.
No. La pittura di Magritte, benché caratterizzata da tutta una serie di elementi che lo collocano – a buon diritto – all’interno del Surrealismo, si discosta profondamente da uno dei principi cardine di tale corrente di pensiero: il dogma dell’arte come automatismo psichico, ovvero come espressione incontrollata e priva di freni inibitori della propria interiorità, allo scopo di mostrare i processi di funzionamento di un pensiero puro, non condizionato dai bagliori accecanti della logica razionale. Al contrario, la pittura di Magritte è estremamente ragionata: non esiste quadro dell’artista belga che non sia frutto di una profonda, attenta riflessione, di un vero e proprio studio accurato, sui significati che vengono veicolati all’osservatore attraverso la tela. Anche i traumi infantili ritornano, nelle sue pitture, scomposti, analizzati, eviscerati allo scopo non di rintracciare risposte, ma di sollevare domande.
Nato a Lessines, Belgio (1898), l’infanzia del pittore è segnata da un tragico avvenimento: quando René è appena adolescente, sua madre Adeline si suicida, gettandosi nel fiume Sambre, da cui il suo corpo senza vita verrà ripescato con il volto avvolto nella camicia da notte. Un’immagine, questa, che diventerà ricorrente nelle tele magrittiane (L’histoire centrale, 1928, Les amants, 1928), ma che tuttavia, lungi dall’essere riproposta ossessivamente, come in una sorta di coazione a ripetere che tenta inutilmente di innescare una catarsi, è solo presa a pretesto dell’arte, l’arte – di cui Magritte è maestro – di mostrare la realtà da prospettive alternative e nuove angolazioni.
E se lo scopo dei Surrealisti, primo fra tutti André Breton, di cui Magritte fu amico e per certi versi allievo, è quello di scardinare un dominio secolare e ormai antiquato della ragione sulla libera espressione della propria individualità, assecondando un’esigenza di autenticità e di riscoperta di Sé che la psicoanalisi freudiana aveva primariamente sollevato e portando alla luce la logica irrazionale dell’inconscio, lo scopo delle tele magrittiane è quello di mostrare l’inaccessibilità, l’incomprensibilità misteriosa di un mondo che all’uomo non è dato di comprendere né tantomeno di intuire, nemmeno se si rende volutamente preda dei suoi impulsi più irrazionali.
All’interno del caotico movimento surrealista, Magritte è l’unico a tentare di mettere ordine. Come? Semplicemente accettando di non poter conoscere l’ordine supremo e intrinseco della realtà, né esteriore né interiore, soprattutto non attraverso la rappresentazione pittorica, di cui viene costantemente dimostrata la mancata aderenza al reale. Realtà e rappresentazione non possono essere usati come sinonimi. Nemmeno il trompe d’oeil, tecnica pure molto usata da Magritte per conferire veridicità ai suoi dipinti, può ingannare: la rappresentazione della realtà non sarà mai nemmeno paragonabile alla realtà stessa. (A questo scopo Magritte evita volutamente nei suoi dipinti la suggestione fotografica).
La pipa raffigurata bidimensionalmente su una tela non sarà mai una pipa (“ceci n’est pas une pipe”, L’uso della parola, 1929, primo di una lunga serie di raffigurazioni simili): nessuno potrà mai fumarla. La riproduzione è una semplice metafora – arbitraria, non fedele – della realtà.
Attraverso la sua pittura Magritte pone allo spettatore degli interrogativi profondi sulla conoscenza della realtà, spingendolo a interrogarsi, quasi a dubitare delle sue stesse percezioni, proiettandolo sull’abisso del suo vuoto interiore, della totale assenza di significati preordinati: scardinata la relazione tra significante e significato, talmente stretta da essere ormai data per scontata, attraverso l’uso di immagini volutamente ambigue, caratterizzate dalla metamorfosi intesa come fusione illusionistica tra elementi diversi – un corpo nudo di donna che diventa cielo (La magie noire, 1942), foglie che diventano uccelli (Les grâces naturelles, 1960), nuvole che diventano massi e massi che diventano lettere, formando la parola “REVE”, sogno, ancora una volta a sottolineare l’inatteso, nascosto potere del linguaggio (L’art de la conversation, 1950) – o dalla assoluta incongruenza visiva e spazio-temporale – una scena notturna sormontata da un cielo diurno (L’empire des lumières, 1954), La “riproduzione vietata” (La reproduction ineterdite, 1937) di un uomo che, guardandosi allo specchio, vede riflessa la propria nuca anziché il viso – Magritte ci propone nei suoi quadri un ritorno all’origine, a un modo di pensare alla realtà privo di categorizzazioni, e ci ricorda costantemente l’assoluta arbitrarietà di buona parte delle nostre conoscenze, prima fra tutte il linguaggio – costanti sono i rimandi alla filosofia linguistica di Wittgeinstein e alla filosofia semeiotica di Saussure e Foucault.
L’ispirazione gli arriva quando vede per la prima volta un quadro di Giorgio De Chirico, Canto d’Amore, che raffigura la testa di Apollo affiancata da un guanto da chirurgo e da una palla, che Magritte prenderà letteralmente a prestito, riproponendola in diversi dipinti e trasformandola in una firma inconfondibile, più di quel nome scritto in minuscolo in fondo alla tela.
Dovendo scegliere un tratto distintivo dell’opera magrittiana, sarebbe sicuramente l’originalità: un’originalità conservata grazie a quella sua capacità di restare al confine, contemporaneamente interno e tuttavia estraneo al movimento Surrealista, sia ideologicamente che fisicamente – Magritte trascorrerà la maggior parte della sua vita in Belgio, lontano dal cuore pulsante del Surrealismo, il centro parigino –, conservando uno stile personalissimo che è agli antipodi rispetto a quello di un altro esponente di spicco del Surrealismo come Salvador Dalì; quasi più vicino alla metafisica che al carattere egocentrico e onirico delle tele dell’artista spagnolo, Magritte celebra l’epopea della solitudine e della suprema incomunicabilità tra gli uomini. Molti trovano l’opera del pittore belga eccessivamente austera, priva di gioia. Ma essa imprime anche una spinta allo spettatore a cercare nuovi canali per entrare in contatto con l’altro, a uscire dagli schemi preordinati per trovare sempre nuovi modi di guardare a se stesso e alla realtà. Perché, frantumato indiscutibilmente l’artificioso legame tra segno e rappresentazione, tra simbolo e realtà, non rimane che l’essenza, nocciolo duro e misterioso della vita umana e dell’universo; e allora, all’uomo non resta che trovare altre strade, ancora non battute e per questo incontaminate, selvagge e ricche, di comunicazione con l’Altro/Mondo.
Giuliana Gugliotti
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