A guardarla sapendo quanti anni ha si potrebbe pensare che abbia fatto un patto col diavolo, Rita Levi Montalcini, classe 1909, alle spalle due Guerre Mondiali, una brillante carriera di ricercatrice tra l’Italia e gli Stati Uniti e un premio Nobel per la Medicina. Ma a conti fatti Lucifero deve averci poco a che fare, con la sua splendida longevità, dato che Rita, da atea dichiarata, non crede in dio né tantomeno al diavolo.
Esercizio costante e inguaribile ottimismo sono i segreti del successo, personale e professionale, della piccola signora di ferro che l’altro ieri ha festeggiato i suoi primi 103 anni in compagnia degli amici e dei più intimi colleghi della Fondazione EBRI (European Brain Research Institute), circondata dall’affetto e dalla stima di un’intera nazione che la venera come simbolo vivente di un’eccellenza tutta italiana.
Una vita tutta dedicata alla scienza nel fermo proposito di agire per migliorare la vita degli altri. Questa la spinta propulsiva alla base di una carriera irripetibile, che non smette di suscitare rispetto e ammirazione. E se i sensi iniziano a tradirla e la vista e l’udito non sono più quelli di una volta, il cervello – a cui la Montalcini ha dedicato tutti i suoi studi – è più attivo oggi di ieri. “Che il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo, sono la mente”. E una mente bene organizzata può arrivare veramente dappertutto.
Partita dagli ambienti vittoriani della Torino di inizio Novecento, Rita ha dovuto lottare non poco per affrancarsi da una mentalità ristretta e maschilista che, nell’ottica del padre Adamo, voleva la donna relegata esclusivamente al ruolo di moglie e madre di famiglia. Ma al matrimonio Rita preferisce la carriera. Cresciuta in un clima intellettualmente e artisticamente stimolante – il fratello Gino sarà scultore mentre Paola, sua gemella, diventerà un’apprezzata pittrice; solo Anna, sorella maggiore, si sposerà adeguandoisi alle aspirazioni paterne – Rita è un’inguaribile curiosa. Decide di iscriversi alla facoltà di Medicina sull’onda emotiva di un tragico evento, la morte per cancro della sua governante.
Inizia quasi subito gli studi sul sistema nervoso in collaborazione con l’istologo Giuseppe Levi, anch’egli ebreo di nascita, con cui si rifugerà a Bruxelles in seguito alla promulgazione fascista delle leggi razziali. Rientrata a Torino allestirà il suo primo laboratorio casalingo per proseguire la ricerca sulla differenziazione e sulla morte delle cellule neuronali. L’obiettivo è isolare delle costanti nel processo di sviluppo del sistema nervoso e capire come reagisce ai tumori e a malattie degenerative come l’Alzheimer e il Parkinson. La guerra però costringe la famiglia Levi a una nuova fuga, e l’Italia è talmente devastata dalla fine del conflitto da essere assolutamente priva di risorse da investire nella ricerca scientifica. Rita capisce che per proseguire i suoi studi deve migrare verso altre mete.
Accetta così la cattedra di neurobiologia all’Università di Washington negli Stati Uniti. Dove, quasi senza accorgersene, rimarrà trent’anni, tutta presa dai suoi esperimenti sugli embrioni di pollo che la resero celebre negli ambienti scientifici statunitensi e che alla fine condussero alla scoperta del fattore di crescita nervoso (Nerve Growth Factor) per cui fu insignita del Nobel (1986) insieme all’allievo e collaboratore Stanley Cohen.
Il rientro in Italia la vede impegnarsi nella costante battaglia per la promozione della ricerca scientifica, con un occhio puntato sull’universo dei giovani talenti troppo spesso affossati da un sistema legislativo antiquato che in Italia non permette ai ricercatori di fare carriera, e con l’altro rivolto a quei luoghi come l’Africa in cui povertà e disagio sono una diga insormontabile per l’avanzata del progresso. In quest’ottica devolverà i compensi ricevuti per aver prestato il suo volto alle campagne di Telecom e Sky a favore dell’istruzione delle donne africane e sfrutterà la nomina a Senatore a vita ricevuta nel 2001 dal Presidente Ciampi per sensibilizzare la classe politica e dirigenziale italiana all’importanza dell’impegno sociale nella ricerca.
Una missione in nome della quale Rita è stata disposta anche a scendere a compromessi, come quando legò il suo nome a quello della Fidia, azienda farmaceutica coinvolta nello scandalo del Cronassial, farmaco prodotto con cervello bovino che fu ritirato dal mercato con l’accusa di provocare danni neurologici, pur di ricevere finanziamenti per mandare avanti i suoi progetti.
Inossidabile alle critiche di quanti vorrebbero vederla in pensione – tutti ricordiamo con un sorriso compiaciuto la lettera di risposta che la Montalcini scrisse all’ex ministro Storace che si offrì di recapitarle un paio di stampelle, secondo la scienziata un gesto dalle reminiscenze “totalitariste” – Rita continua ancora a lavorare, instancabile, fiduciosamente proiettata nel futuro, animata dal fuoco sacro della conoscenza e della scoperta.
Dopo 103 anni la scintilla dell’entusiasmo non si è spenta nello sguardo penetrante e fiero di Rita Levi Montalcini. Che continua – e deve continuare – a essere un modello da imitare, come scienziata e come donna, un punto di riferimento, bussola e faro verso cui orientare la navigazione di una barca, quella della ricerca italiana, che appare ancora troppo spaesata per competere a livello internazionale.
Giuliana Gugliotti
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