“Non si può non prendere atto che la violenza sulle donne è ancora largamente un’emergenza delle donne. La società nel suo complesso, fatte salve alcune voci maschili, è incapace di assumerla come emergenza, direi come esigenza propria.”
(cit. Loredana Rotondo -giornalista Rai)
Violenza, violenza e ancora violenza. La società in cui viviamo sembra abbia trovato, come nuovo passatempo, la violenza. Si traduce in molteplici espressioni. Passiamo dal “mai troppo classico” bullismo alle percosse, fino ad arrivare all’abuso sessuale. Ancora numerose le segnalazioni di casi per mano del singolo, ma il dato che più fa impressione è l’aumento di stupri ad opera di più individui. È il branco ad attaccare la singola preda.
La sentenza depositata agli inizi di febbraio ha provocato una reazione e un’opinione anche in chi non ne ha mai avute. È identificata con il numero 4377 e va ad estendere un’interpretazione della sentenza 265 del 2010. Sentenza che Giovanna Piaia – assessore alle Politiche e Cultura di genere del Comune di Ravenna – ha definito “segno di regressione culturale”. Nel 2009 non poteva esserci altra misura cautelare se non il carcere, in caso di violenza sessuale. Con la nuova versione la Consulta si è pronunciata in altri termini: “nell’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. Ciò significa che – in presenza di determinate condizioni – i presunti stupratori possono non essere collocati in carcere (in attesa di giudizio definitivo), e di “sottomettersi” a misure cautelari alternative quali arresti domiciliari, obbligo di risiedere in un determinato comune, e altre. La sentenza del 2010 si riferiva a reati di violenza sessuale e atti sessuali su minori. La Corte di Cassazione ha interpretato quest’ultima estendendola anche alle violenze di gruppo.
Facebook e Twitter impazzano di link e frasi da cui trasuda unicamente la mancata comprensione della sentenza. Non ci sono dubbi sulla condanna altisonante per atti di questo genere, ma altrettanto altisonante non può essere quella nei confronti dei giudici. Ma le polemiche non arrivano unicamente dalla voce della “gente comune”. Il presidente di Solidea – ente che gestisce diversi centri anti violenza – Maria Grazia Passuello, “Già le donne tendono a non denunciare perché non si sentono garantite dalla giustizia, con questa sentenza lo faranno sempre meno finendo per chiudersi sempre più in se stesse e a non chiedere aiuto. Purtroppo devo riscontrare che nel nostro Paese c’è una cultura ancora molto arretrata su cosa significa stupro”.
Anche il Comitato “Se Non Ora Quando” di Chieti ha mostrato la sua contrarietà contro la sentenza n.4377 del 2012 che cancella l’obbligatorietà del carcere anche in caso di violenza di gruppo. Secondo quanto si legge dal comunicato stampa si evince la condanna per la violenza di gruppo definita “un reato grave contro la persona”. E continua con parole ben più pungenti: “Se non è giusto tenere in carcere chi non ne è ancora stato giudicato colpevole è anche vero che le vittime di stupro sono, loro sì, sempre obbligate a subire un carcere fatto di vergogna, diffamazione e paura che può costringerle anche a fuggire dal proprio paese, oltre ai danni psicologici immaginabili”.
Roberta Santoro
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