I Decemberists tornano a trovarci con un nuovo lavoro quanto più folk e western che mai. Li avevamo lasciati alla pomposità del concept “Hazards Of Love” targato 2009. In seguito, nel settembre del 2010, la band ha aperto per Neko Case e l’headliner, tale Bob Dylan, al Bumbershoot Arts and Music Festival di Seattle, rimanendo folgorata e ispirata da suoni di armoniche e accordion. In pochi mesi la band di Portland aveva già messo le basi per il nuovo “The King Is Dead”, un titolo che attinge a piene mani dagli Smiths e dal loro “The Queen Is Dead” dell ‘85, del resto è nota la venerazione di Meloy per Morrisey.
C’è un forte ritorno al folk del 2003 per questo The King Is Dead dei Decemberists, il terzo album marchiato Capitol Records, ed una buona dose di armoniche e violini “western”, sin dalla prima “Don’t Carry It All” che apre l’ album. Siamo di fronte a vere e proprie gemme pop/folk, l’arrangiamento è molto meno “barocco” di lavori precedenti, ma le canzoni dei Decemberists riescono a conservare sempre quella matrice accattivante di orecchiabilità e semplicità compositiva.
Peter Buck dei R.E.M. compare in ben tre brani del disco, andando a confermare quell’impasto fatto di chitarre acustiche, armonica e banjo che caratterizza il disco (o di steel guitar, presente in Riise to Me). “Down By The Water” sarebbe potuta uscire da un qualsiasi disco dei R.E.M., e lo stesso Meloy ha affermato che a livello compositivo qualcosa è stato attinto dal gruppo di Athens.
Con “All Arise!” si torna alle atmosfere da saloon, mentre “June Hymn” non fa nulla per nascondere le influenze dylaniane presenti in molti punti del disco, così come non fa nulla per nascondere la sua candidatura come miglior pezzo dell’album. Chiude la struggente “Dear Avery”, condita di steel guitar e giri di basso notevoli.
Con The King Is Dead si chiude il cerchio formatosi dai tempi di The Crane Wife (forse ad oggi il lavoro più appassionato dei Decemberists), un cerchio fatto di songwriting di qualità e di arrangiamenti azzeccati.
Marco Della Gatta
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