Mystic River di Clint Eastwood, Non è un paese per vecchi dei Coen, 8 e ½ di Federico Fellini, Toro Scatenato di Martin Scorsese, Voglia di tenerezza di James L. Brooks. Sono i film della vita di Paolo Sorrentino, quelli che ne hanno influenzato la formazione, quelli a cui ha “rubato” qualche trucco del mestiere, quelli che l’hanno fatto diventare chi è oggi: uno degli autori contemporanei più amati e meglio rappresentativi dell’eccellenza italiana nella settima arte. Ospite d’onore, domenica sera, al Napoli Film Festival nella sezione “Incontri Ravvicinati”, il cineasta partenopeo si è concesso al pubblico numeroso dell’auditorium di Castel Sant’Elmo parlando del cinema che ama e commentando le sequenze di cinque pellicole scelte di getto per l’occasione. E non è un caso che tra queste ce ne sia una con protagonista Sean Penn. Parlare di Sorrentino oggi, significa parlare soprattutto di This must be the place, il film che ha portato il regista napoletano fuori dai confini nazionali per lavorare con un grande interprete del cinema mondiale, il premio Oscar Sean Penn per l’appunto, che per Sorrentino si è letteralmente trasformato, per indossare i panni di un’icona decaduta del rock in cerca di una vendetta per il padre che però si risolve in una sofferta ricerca della propria identità.
Cheyenne (Sean Penn), è una ex goth-rock star di successo degli anni ’80. Ormai ritiratosi dalle scene, vive recluso in un castello irlandese accanto alla moglie-madre Jane (Frances McDormand). In preda di una depressione che forse è solo noia, trascorre la sua esistenza trascinandosi lentamente per le strade di Dublino in compagnia della giovane dark Mary (Eve Hewson, la figlia di Bono Vox) e di un carrello della spesa da cui non si separa mai. Occhi bistrati, cerone bianco, capelli cotonati e bocca impiastricciata di rossetto rosso in stile Robert Smith dei Cure, a cinquant’anni, Cheyenne vive ancora bloccato nel ricordo di un passato glorioso ormai lontano, ingabbiato in una maschera che sotto strati di trucco nasconde dolore, nostalgia e sensi di colpa. La notizia della morte del padre, con il quale ha sempre avuto un rapporto molto conflittuale, lo risveglia a forza dalla sua catatonica routine, costringendolo ad uscire dal suo isolamento per andare a New York dove scoprirà che il genitore, ebreo sopravvissuto ad Auschwitz, ha passato l’intera esistenza nell’ossessione di rintracciare l’aguzzino nazista che lo aveva umiliato. Inizia così per Cheyenne un viaggio on the road alla ricerca di Aloise Lange. La sua missione è completare l’opera paterna rimasta incompiuta, ma in un percorso interiore, prima che fisico, Cheyenne finirà per dare finalmente un senso alla sua vita spenta.
Va detto subito che This must be the place non è un film sull’Olocausto. E’ tante altre cose. C’è la sete di vendetta del protagonista verso il criminale nazista che aveva umiliato il padre in un campo di concentramento, che è il vero motore della storia. Ma c’è anche l’assenza di un rapporto affettivo padre-figlio da recuperare seppure simbolicamente, e soprattutto ci sono le fragilità di un cinquantenne che guarda ancora il mondo con gli occhi innocenti di un bambino. Cheyenne è un uomo adulto ma totalmente immaturo e infantile, che non vuole liberarsi da quell’immagine che si è costruito per paura di crescere ed affrontare quel lungo e tortuoso viaggio che è la vita. Ed è proprio il viaggio a fare da tema fondante della storia raccontata da Sorrentino. Viaggio come metafora di un percorso interiore di crescita dove poco conta dove si arriva. Ciò che realmente ha un senso è quello che avviene nel mezzo. Accompagnato dal suo inseparabile trolley, Cheyenne attraverserà l’America più profonda e remota disseminata di personaggi folli e stravaganti, travagliati e demotivati proprio come lui. E da questi incontri ne uscirà diverso, cambiato. Partito alla ricerca di vendetta durante il cammino in quest’uomo ancora bambino, scatta quel qualcosa necessario ad avviare una maturazione troppo a lungo rimandata, che gli permetterà finalmente di sconfiggere i demoni della sua vita.
Tre anni dopo il trionfale successo internazionale con Il Divo (2008), Paolo Sorrentino torna – forse – con il film più personale mai girato, mettendoci dentro tutti i ricordi e le fascinazioni che lo hanno reso felice da adolescente, da un protagonista ispirato nel look al leader dei Cure, al titolo stesso del film This must be the Place, canzone degli amati Talking Heads e motivo sonoro portante della pellicola. E poi ci sono New York, il deserto sconfinato, le stazioni di servizio americane, tutti quei luoghi iconografici del cinema americano nel cui mito si sono formati Sorrentino e tanti altri cineasti prima e dopo di lui.
*** Costato 28 milioni di dollari, il primo film in lingua inglese di Paolo Sorrentino è una coproduzione tra Italia (Indigo, Lucky Red e Medusa che lo distribuisce anche), Francia (France 2 Cinéma e ARP Sélection) e Irlanda (Element Pictures). Negli Stati Uniti uscirà a dicembre distribuito dalla Weinstein Company, giusto in tempo per rientrare nei papabili nominati agli Academy Awards.
THIS MUST BE THE PLACE – Trailer ufficiale Italiano
Enrica Raia
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