“In questo film non troverete la verità sul caso Vallanzasca. Perlomeno non ne troverete una sola. Perché questo è un film, non un’inchiesta. Non condanna. Non assolve. Racconta una storia. La storia di una banda, la storia di una Milano che non esiste più, ma restano veri e crudi il dolore di chi ha subito queste violenze” (Michele Placido). Una premessa più che doverosa, che tuttavia non è servita a placare gli animi di chi ancora porta sulla propria pelle ferite mai rimarginate e nell’animo il dolore immenso causato dal bandito della Comasina. E così, criticato, additato e accompagnato da un lungo strascico di polemiche prima ancora di essere visto, arriva sui nostri schermi Vallanzasca – gli angeli del male, pellicola che segna il ritorno – dopo l’applauditissimo Romanzo Criminale – di Michele Placido al gangster movie, dedicato stavolta a Renato Vallanzasca, un personaggio assai controverso della storia italiana, protagonista tra gli anni ‘70 e ’80 – i cosiddetti “anni di piombo” – di una lunga scia di furti, sequestri, evasioni, sommosse in carcere, scontri a fuoco ed omicidi per i quali il “bel René” (questo l’appellativo attribuitogli da alcuna stampa dell’epoca) sta tuttora scontando una condanna a 4 ergastoli e a 260 anni di galera.
1985. Reparto Isolamento del Carcere di massima sicurezza di Ariano Irpino. “Vallanzasca Renato, matricola 38529H, nato a Milano il quattro maggio 1950…”. Si apre così il film, con Vallanzasca che ci racconta in prima persona la sua innata propensione al crimine rivelatasi sin da bambino quando, a nove anni, libera una tigre da un circo. E’ il principio di una carriera criminosa che in una rapida escalation di violenza e brutalità lo porterà a divenire il più celebre e temuto (ma anche il più affascinante e carismatico) criminale degli anni di piombo. La storia del boss della Comasina e della sua banda che mise a ferro e fuoco Milano e la Lombardia tra gli anni ’70 e gli anni ’80, viene raccontata con una scansione cronologica, dai primi passi mossi nel quartiere Giambellino tra la mala e la bella vita – locali di lusso, donne, champagne e droga – e dalla rivalità con il boss incontrastato della città, Francis “Faccia d’angelo” Turatello, ai primi furti, rapine, omicidi e sequestri di persona. Poi le rocambolesche evasioni, la latitanza, la relazione con Consuelo prima e il matrimonio in carcere con Giuliana poi, l’alleanza criminale con Turatello. E infine i processi, le condanne e l’ultimo arresto nel 1987.
Il cinema da sempre ha subito il fascino perverso del crimine. Ogni paese può vantare la sua propria epopea cinematografica criminale. Pensiamo alla Francia con il recente doppio film di Richet sul bandito Jacques Mesrine lodato dalla critica internazionale, come pure il John Dillinger del fascinoso Johnny Depp in Nemico Pubblico di Michael Mann, per non parlare di Boardwalk Empire, la serie di Scorsese sul proibizionismo americano premiata con due Golden Globes. In Italia invece si grida allo scandalo. E’ chiaro che quando c’è un dolore reale, e quando il responsabile di quel dolore non è un personaggio di fantasia ma è vivo e vegeto, diventa naturale interrogarsi sulla necessità di realizzare film che “celebrano” personaggi negativi. L’intento di Placido però, lungi dall’essere l’apologia di un criminale, è quello di entrare con approccio distaccato nella mente di un uomo che di fronte al bivio fra la normalità e la devianza, fra il bene e il male, sceglie di percorrere deliberatamente la strada senza uscita dell’autodistruzione. Il Vallanzasca di Placido è un angelo del male, un antieroe, un delinquente senza ideologia sfrontato e sbruffone, megalomane e affascinante, il classico bello e maledetto che in carcere riceveva migliaia di lettere di ammiratrici. Un mix che purtroppo lo rende interessante anche come personaggio cinematografico. E forse il primo (e unico) errore di Placido sta proprio nel non aver decostruito a dovere il mito di Vallanzasca, nel non aver dato il giusto spessore al suo “pronunciato” lato oscuro. Non ci sono sconti sulla violenza e, in alcuni passaggi, anche sulla ferocia delle sue azioni, ma il Renato Vallanzasca del film è esattamente lo stesso che appariva sui giornali dell’epoca, spaccone, simpatico e seducente.
Entrando nel merito tecnico, un ritmo narrativo incalzante, sottolineato dal rock travolgente dei Negramaro, un montaggio dinamico, una regia pulita, asettica, che sta “addosso” al suo protagonista e non indugia nell’introspezione (tranne forse che in una delle ultime scene), un cast eccezionale con un Kim Rossi Stuart che raccoglie la sfida di un personaggio così complesso regalandoci un’interpretazione straordinaria, attorniato da un altrettanto valido ed impeccabile Francesco Scianna (che interpreta Francis Turatello), Filippo Timi (Enzo, sbandato amico d’infanzia di Renato), e in ruoli minori Valeria Solarino, Moritz Bleibtreu e Paz Vega, fanno di Vallanzasca – gli angeli del male, aldilà di tutte le perplessità che l’argomento toccato suscita, un valido film di genere che potrebbe finalmente aprire la nostra industria ad un cinema a tinte internazionali.
Enrica Raia
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