Il 30 Agosto 2016 la Apple è stata condannata in via definitiva a risarcire
una cifra record pari a13 miliardi di euro.
(di tasse non versate), relative
ai benefici fiscali accordati dal regime tributario della Repubblica
irlandese. Aiuti questi che in ambito comunitario sarebbero stati
giudicati indebitamente concessi, in quanto non in linea con le regole
vigenti della Unione europea.
L‘Irlanda avrebbe concesso alla Apple un trattamento di favore che ha
messo questa società in condizione di eludere le imposte sui profitti sulla
quasi totalità delle vendite effettuate nel mercato unico dell‘Unione
europea (la Apple infatti registrava tutte le sue vendite come effettuate
nel solo territorio irlandese).
Dublino ha fatto delle agevolazioni fiscali per le aziende un pilastro della
propria economia a partire dagli anni 80‘, attirando le più importanti
multinazionali: la Apple ricambiava questo trattamento di favore,
assicurando la permanenza dell‘azienda sul territorio irlandese,
garantendo alti livelli occupazionali.
L‘Antitrust europeo indagava sul caso sin dai primi anni 2004.
Si ritiene che in poco più di dieci anni, la Apple, grazie a questo sistema
di matrioske societarie e a una serie di accordi siglati con il ministero
delle Finanze irlandese (tax ruling, sistema di per sé legale) a fronte di
introiti miliardari, abbia pagato tasse pari solo all‘1% degli utili,
arrivando addirittura a una percentuale di 0,005% sui profitti nell‘ultimo
anno preso in esame.
L‘Unione europea, per voce della Commissaria europea alla concorrenza
Margrethe Vestager, ha dichiarato:
«Che gli stati membri non garantiscano a singole società un trattamento
fiscale di favore [..] che i profitti siano allocati in modo che riflettano la
realtà economica».
Domandarsi se sia etico che un colosso quale la Apple sia riuscito a
eludere una mole così ingente di tasse: la risposta va ricercata sicuramente nell‘evidente vuoto normativo in materia di
politica fiscale europea.
Fino a oggi la Ue, attraverso la posizione presa dal Commissario, aveva
vigilato unicamente affinché non si creasse un precedente sulle
compagnie e sugli Stati, in modo che questi non applicassero condizioni
in grado di alterare gli equilibri tra gli stessi stati membri.
Le indagini dell‘Antitrust europeo non nascono in merito alla presunta
evasione fiscale della Apple, ma in base a un trattamento potenzialmente
discriminatorio nei confronti dei competitor; la decisione, quindi, non
rispecchia un nuovo quadro normativo europeo di riferimento (manca la
legge).
L‘obiettivo dell‘Antitrust è proprio quello di un‘armonizzazione sul
tema.
Avere una politica fiscale comune è difficile; la sovranità di regole
comuni sul tema risulta ardua e il caso Apple dimostra che se la
condivisione di autorità a sostegno di una legislazione fiscale unica ci
fosse stata, non ci saremmo trovati davanti a un caso del genere.
A oggi le multinazionali possono sfruttare questo grave vuoto normativo
nel sistema fiscale-politico, che appare disomogeneo.
In questo senso nel 2013 l‘Italia propose la Digital tax6
per recuperare
circa sei miliardi di tasse sui redditi d‘impresa provenienti dal mercato
digitale dominato da Facebook, Twitter, Apple e Amazon.
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Questa proposta è abortita sul nascere, il legislatore italiano si rese conto
che se applicata solo in Italia avrebbe comportato una riduzione degli
investimenti esteri, inducendo i principali player a delocalizzare nei
paesi Ue dove questo provvedimento non era previsto. L‘unica soluzione appare dunque essere un regime fiscale omogeneo per
tutte le società che operano nel contesto comunitario.
Un recente rapporto di Eurodad8
ha rivelato che il ―tax dodging‖
9
delle
imprese multinazionali mette a repentaglio lo sviluppo e la giustizia
sociale.
Sia la Ue che il FMI ritengono che una riforma fiscale sia ineludibile,
rivolgendosi in primis a quei Paesi che attraverso politiche fiscali
vantaggiose attraggono le grandi multinazionali in Europa: Irlanda,
Lussemburgo, Olanda, sono le mete preferite e specializzate nell‘offrire
rulings fiscali favorevoli.
Le multinazionali, domiciliandosi in questi Paesi che applicano una
tassazione minima, preservano intatti i loro profitti, non contribuendo
alla giustizia fiscale dei Paesi dove questi utili vengono di fatto prodotti.
Nel grafico sotto riportato, si evince quanto la Apple ha trattenuto e
occultato in contanti e in titoli negoziabili dal 2008.
La triangolazione evasiva della Apple è un caso emblematico10 (l‘OCSE
in merito ha dettato una road map per controllare l‘evasione fiscale
internazionale).
L‘attrazione dei paradisi fiscali mostra la debolezza dei Governi
nazionali e delle istituzioni internazionali, (Ocse, Fondo Monetario,
G20) nel contrastare concretamente e efficacemente questi fenomeni
attraverso politiche comuni e c‘è da chiedersi se questo dilagare è fatto
in maniera inconsapevole o è una silenziosa complicità da parte dei
governi.
Tra le possibili soluzioni, Gabriel Zucman13 suggerisce la creazione di
un registro finanziario obbligatorio mondiale, in cui tutti i dati relativi
alle ricchezze possedute direttamente e indirettamente dalle
multinazionali devono essere comunicate automaticamente alle autorità
fiscali di ogni paese in cui le multinazionali hanno intenzione di operare.
Contravvenendo a questa direttiva, verrebbero applicate severe sanzioni,
stipulate di comune accordo dalla comunità internazionale.
La sentenza della Commissione Europea, il cui obiettivo è il recupero di
questi ―aiuti di Stato dichiarati illegittimi, ha lo scopo di appianare la
distorsione in tema di concorrenza, ripristinandone la parità di
trattamento tra le società. Risulta dunque rappresentativa per tutte le big companies e gli OTT
americane presenti in Europa che assumono medesimi comportamenti
pari a quelli tenuti dalla Apple in tema di tasse.
Il caso Apple evidenzia l‘urgenza di un‘armonizzazione fiscale a livello
europeo, omettendo le divisioni e la concorrenza tra gli Stati (ciò
risulterebbe perdente di fronte ai colossi USA), assumendo un
atteggiamento cooperativo in tandem con la Commissione e il
Parlamento Ue.
Dal Ceo di Apple la risposta arriva forte e aspra; in merito alla decisione
di Bruxelles, l‘amministratore delegato Tim Cook, giudica la decisione
una ―political crap,‖ sostenendo che non vi sia stato nulla di illegale
nell‘accordo con l‘Irlanda, giudicandolo un atteggiamento
antiamericano.
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Tim Cook ha annunciato ricorso alla Commissione europea,
sottolineando che gli investimenti in Irlanda e in Europa per il momento
non saranno ridotti.
Questa volontà congiunta di ricorso in appello, mette in luce aspetti
profondi del legame che intercorre tra la Apple e la Repubblica d‘Irlanda:
la realtà occupazionale e la presenza concreta di sviluppo economico sul
territorio irlandese.
PATRIZIA DIOMAIUTO
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