Fuori il sole è caldo e accecante, e nell’ufficio immigrazione 100 persone sudano copiosamente. Ma nessuno si lamenta. Una parola critica, un atteggiamento esigente, potrebbe finire in punizione. Così aspettiamo tutti in silenzio la “white card”, l’autorizzazione per viaggiare fuori da Cuba. La white card è una delle assurdità migratorie che impediscono ai cubani di uscire ed entrare liberamente dal proprio paese. E il nostro muro di Berlino, un muro fatto di carte e timbri, sorvegliato dagli sguardi tristi dei soldati. Questo capriccioso permesso di uscita costa più di 200 dollari, un anno di stipendio per il cubano medio. Ma il denaro non è sufficiente. Bisogna possedere altri requisiti non scritti, condizioni ideologiche e politiche che ci permettono di imbarcarci su un aereo. Con così tanti ostacoli, ricevere un “sì” è un po’ come sentire lo stridio dei bulloni divelti dalla porta della cella. Ma per molti, come me, la risposta è sempre “no”. Migliaia di cubani sono stati condannati all’immobilità su quest’isola, anche se nessun tribunale ha emesso un verdetto. I nostri “crimini” sono l’avere un pensiero critico nei confronti del governo, l’essere membro di un gruppo di opposizione o l’essere iscritto ad una piattaforma in difesa dei diritti umani.
Yoani Sanchez racconta così una giornata all’ufficio immigrazione dell’Avana in un articolo pubblicato sulla Sunday Review del New York Times lo scorso 22 aprile. Lei, che da Cuba se n’è andata quando aveva 27 anni, per ritornarci due anni dopo, con in mente un obiettivo esplicito e quantomeno inconsueto: opporsi al regime di Fidel Castro sfruttando le potenzialità della rete.
Nasce così Generación Y, blog ispirato alla vita di persone normali, i cubani “nati negli anni Settanta e Ottanta, marcati dalle scuole al campo, le bamboline russe, le uscite illegali e la frustrazione”, che “trascinano” nei loro nomi quella “y” che non è solo la prima lettera di un nome, ma vuole diventare un segno di riconoscimento, segnale tacito di una volontà collettiva di cambiamento che il regime troppo spesso ha messo – e continua a mettere – a tacere. Generación Y è uno spazio che raccoglie frammenti di vita quotidiana in una Cuba dilaniata da profonde contraddizioni. Perché Cuba è e rimane una nazione politicamente controversa, segnata da cicatrici storiche profonde che ancora stentano a rimarginarsi. Un paese in cui l’attuazione pratica di un garantismo statale estremo genera di fatto una serie di situazioni al limite del paradosso. E fa venire voglia di domandarsi fino a che punto uno Stato abbia davvero il dovere di farsi garante dei diritti dei cittadini, e cosa accade quando una politica del genere smette di tutelare e diventa invece cappio stretto intorno al collo della libertà di espressione individuale. È una linea di confine sottile, e facilmente valicabile. Subdola, diafana, spesso quasi invisibile. Ancora oggi, soprattutto a Cuba. Uno Stato che veglia sul diritto alla casa ma non consentiva (fino a poco fa) la proprietà privata, impedendo di fatto l’acquisto di un immobile. Uno Stato che garantisce l’istruzione gratuita per tutti e a tutti i livelli pagando i docenti anche universitari con salari “simbolici”, cioè da miseria. Uno paese che ha fatto dell’egualitarismo uno dei perni attorno al quale far ruotare la sua struttura politica (che a noi occidentali abituati al liberismo per la verità appare un po’ rigidella) che proibisce ai suoi cittadini il libero accesso alla rete, eccezion fatta per dipendenti pubblici, accademici e ricercatori (non più del 2% della popolazione), che possono godere di connessioni a Internet ma con firewalls che limitano drasticamente l’accesso a siti stranieri.
Un limite, questo insieme a tutti gli altri, che però è stato solo un incentivo alla sfida per Yoani, quando nel 2007 ha deciso di fondare il suo blog per dare un senso alla scelta di rientrare a Cuba, come militante in una guerra simbolica, da combattere con l’unica arma possibile, la più civile e la più pericolsa insieme, la parola.
Una figura scomoda, accusata dal regime di Castro di essere filo-americana, in ogni caso facile da strumentalizzare da più parti, come non ha mancato di sottolineare Gianni Minà. Ma prima di tutto una persona che ha scelto di non tacere. Oggi Yoani ha 36 anni, una figlia di 16 avuta dal marito Reynaldo Escobar, professione giornalista, più di un milione di visitatori al giorno per il suo blog recentemente tradotto anche in italiano, un premio Ortega y Gasset da ritirare in Spagna e un libro, “Cuba libre – Scrivere e vivere all’Avana”, da presentare in Italia. Ma nessun permesso per allontanarsi da Cuba. Che in ogni caso non lascerebbe per nessun altro posto al mondo. Nonostante le file interminabili per il pane e la difficoltà di riparare gli elettrodomestici in casa, la fame cronica, di cibo e di notizie non filtrate dai giornali di partito, la preoccupazione per i molti amici in carcere e la nostalgia per i tanti che non ce l’hanno fatta e da Cuba sono fuggiti, morendo ogni giorno un po’ e smettendo lentamente di credere a un futuro migliore. A differenza di lei, Yoani, che è rimasta a lottare. Che pur di aggiornare il suo blog e la sua pagina twitter è disposta a spendere 6 dollari di connessione l’ora, nonostante il recente ordinamento proibisca la vendita di carte prepagate per la navigazione in rete, “lusso” concesso solo ai vacanzieri. Che per guadagnare sfrutta la laurea in letteratura spagnola, filologia ispanica e letteratura latinoamericana lavorando come guida turistica e come traduttrice. Che giorno dopo giorno porta avanti una battaglia instancabile ma pacifica, contro un regime di cui si impegna a denunciare le storture, prima ancora che come dissidente politica come semplice cittadina, che Cuba la vive quotidianamente, la ama, e non ha mai smesso di sperare di vederla risorgere, nel segno della democrazia.
Giuliana Gugliotti
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